mercoledì 26 gennaio 2011

Legge 20 luglio 2000, n. 211






"Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti"

pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000

Art. 1.

1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Art. 2.

1. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinchè simili eventi non possano mai più accadere.

Il giorno della memoria per dimenticare


In occasione delle celebrazioni del Giorno della Memoria che ricorre domani, 27 gennaio 2011, mi piace offrire, all'attenzione dei lettori del blog, un testo che ritengo importante e ricco di spunti di riflessione, scritto da Walter G.Pozzi ed inserito ijn una rubrica che trovate on line "Paginauno", bimestrale di informazione culturale, politica e di letteratura.
Con la speranza che la nostra labile memoria umana non riesca mai a dimenticare la tragedia umana della Shoah, vi lascio al testo e mi preparo a riflettere con voi.
Antonella

La riduzione degli orrori del Ventennio al solo episodio delle leggi razziali, a copertura di una cultura fascista tuttora presente nelle logiche economiche e politiche

“L’intelligenza non avrà mai peso mai, / nel giudizio di questa pubblica opinione. / Neppure sul sangue dei lager otterrai, / da una delle milioni d’anime della nostra nazione, / un giudizio netto interamente indignato. / Irreale è ogni idea, irreale è ogni passione / di questo popolo ormai dissociato / da secoli, la cui soave saggezza / gli serve a vivere. Non l’ha mai liberato. / Mostrare la mia faccia, la mia magrezza. / Alzare la mia sola puerile voce / non ha più senso. La viltà avvezza / a vedere morire nel modo più atroce / gli altri con la più strana indifferenza. Io muoio, e anche questo mi nuoce.”
(Pier Paolo Pasolini)

Mancano pochi giorni al 27 gennaio, giorno della memoria. Come gli anni precedenti, sarà un tripudio di commemorazioni, non senza danni per la verità storica, purtroppo.
I treni carichi di studenti partiranno regolarmente verso i campi di concentramento, i giornali e le televisioni ne parleranno, documentari e film sulla Shoah riempiranno i programmi commemorativi, così come non mancheranno le iniziative private, per un pentimento collettivo che rimuove la colpa e salva anche chi non si è mai pentito. Poco male. Il bagno di folla, per un giorno illuderà di abitare da un’altra parte, che gli italiani non votino alla grande per Berlusconi e Lega nord.
La contraddizione non può non indurre qualche riflessione sul contributo di questa commemorazione in merito a ciò che realmente è stato il fascismo e sulla percezione che di esso oggi ne hanno gli italiani.
Anche perché, davanti all’oblio che immediatamente segue la contrizione collettiva, diventa difficile evitare di porsi un paio di dolorose domande.

Come possono conciliarsi, nella coscienza di un individuo, la commozione postuma o le lacrime tardive per le deportazioni nei lager di ebrei, zingari, omosessuali e comunisti, e l’indifferenza di fronte al razzismo grondante da ogni riga dell’ultimo pacchetto sicurezza sfornato dal governo che ha votato? Quasi non ci fosse apparentamento ideologico tra quelle deportazioni e queste leggi. E come può una persona ritrovarsi tanto sensibile il 27 gennaio di ogni anno e votare una coalizione che vince in allegra alleanza con partiti come Forza nuova e Fiamma tricolore?
È questo senso di normalità e di indifferenza, che si sta creando di fronte alla larga diffusione popolare di una cultura politica fascista, a rendere l’idea di quanto possa pesare su una popolazione una mancata resa dei conti con il proprio passato.
Tuttavia occorre precisare che di ritorno non si tratta, giacché il fascismo non è stato mai accantonato. Tenuto nascosto, questo sì – come un vecchio nonno che sbava a tavola – ma sempre ospitato in casa nell’attesa che il lungo processo di profonda rimozione subìto dagli italiani gli creasse il contesto giusto per riemergere senza dover provare più alcuna vergogna.

Ci sono state in Italia situazioni politiche, questioni di governabilità che persistono tutt’oggi, per le quali era necessario impedire il radicamento di una memoria collettiva realmente antifascista. Pure ammettendo le ambiguità che questo termine reca con sé. Difficile pensare, in effetti, che si possa essere antifascisti senza essere anche anticapitalisti.
Eppure la politica italiana è riuscita a portare avanti questa impostura e a dissimulare lo spirito fascista che ha continuato ad animare il grande capitale. E se il potere borghese insediatosi dopo la dittatura ha costantemente dimostrato di non avere alcun interesse a far ricordare, è giusto credere che ricorrenze istituzionali come il 25 aprile, il 2 giugno, il 4 novembre e il 27 gennaio rispondano attivamente a questo principio di rimozione.

Ogni ricorrenza storica istituita dal potere rientra in un sistema invisibile di comunicazione ideologica a tripla funzione: fissare una data in memoria di un fatto storico, astrarre questo fatto dal contesto politico ed economico della sua epoca e renderlo in tal modo simbolo di un valore da considerarsi assoluto.
Se è vero che da un lato ricordare le vittime della Shoah significhi riconoscere nel fascismo la complicità grave delle deportazioni degli ebrei da parte del regime, per altro verso presuppone la riduzione, attraverso una plateale ammissione di colpa, dell’orrore del Ventennio a quest’unico episodio. Anch’esso mondato e assolto, anno dopo anno come in una messa domenicale, attraverso la ripetizione irriflessiva.

Solamente un Paese con la coda di paglia avrebbe potuto inventarsi un giorno della memoria sul solo episodio della propria storia vergognosa, con il quale oltretutto era ormai divenuto impensabile non fare i conti. Non fosse altro per l’inevitabile confronto incrociato con la storia di un’altra nazione. Non c’è alcuna nobiltà nell’istituire un giorno della Shoah in Italia, quando sarebbe stato più logico istituire un giorno in ricordo delle vittime del fascismo. Al contrario vi si ritrova l’intera gamma di vizi di un potere le cui costanti storiche sono la menzogna perpetuata e la verità negata nel tempo e contro ogni evidenza.
Fingere che le leggi razziali siano state l’unico errore del fascismo, la parte cattiva, significa implicitamente affermare che gli eccidi di operai e dirigenti socialisti, le chiusure delle Camere del lavoro, l’annullamento con la forza di ogni forma di opposizione politica nel 1921, i genocidi posti in atto nella ex Jugoslavia e l’uso dei gas tossici in Etiopia non siano mai esistiti o che appartengano al sedicente fascismo buono.

Ma non esiste speranza di istituire una ricorrenza del genere, perché quel periodo storico è denso di significati che si riflettono minacciosamente nelle odierne logiche economiche.
Niente è più sbagliato del considerare il fascismo in astratto, come se fosse esclusivamente un impianto ideologico sottovuoto politico. Poteva crederci Giovanni Gentile, da buon seguace dell’idealismo, ma non ci può credere chi pensa all’economia come primo motore del mondo. In fondo, la politica al fascismo ha dato solo la forma e il nome. È più corretto semmai parlare di fascismo riferendosi al sistema di produzione e alle sue logiche aberranti.

Nel romanzo di Fred Uhlman, Niente resurrezioni, per favore, trent’anni dopo la fuga da una Germania in pieno delirio nazista e antisemita, Simon ritorna nella sua città natale. Appena sbarcato dall’aereo, entra nel bar dove era solito incontrare i compagni di studio e vi trova un vecchio amico.
Non sa di avere di fronte un ex nazista arricchitosi con la ricostruzione. Simon lo ascolta parlare in maniera convulsa dei compagni di scuola caduti in guerra: “La percentuale è più alta ancora, supera il 50%”, “21 più 3 di cui non si sa più niente e che sono dati per morti: totale 24”, anche se “chi è morto è morto e noi siamo vivi”; della città ricostruita: “Avresti dovuto vedere questi posti dopo la guerra. Ventimila morti in una sola notte. Il 65% degli edifici distrutti”; della grande ascesa economica: “Sai come abbiamo fatto? Lavorando sodo. Quattordici ore al giorno per dieci anni [...]. Prestiamo addirittura denaro all’America”; della propria attività: “Dirigo una ditta di lucido da scarpe, la più grande d’Europa, detto tra noi, ho aumentato la produzione del 27%”. Un’intera società ridotta a un mucchio di cifre in attivo, compreso il rapporto morti e vivi, nel cui conteggio mancano gli ebrei.

L’uomo che Uhlman presenta, lungi dall’essere una macchietta, è uno dei prodotti umani del dopoguerra, nato da uno Stato delegittimato dalla storia, nonché frutto sociale della ricostruzione. Del momento, cioè, in cui la Germania e i tedeschi sono diventati le ‘cavie’ di un esperimento politico ed economico, organizzato dagli Alleati, che avrebbe reso il libero mercato con le sue regole la colonna portante su cui fondare il futuro Stato tedesco. Obiettivo: introdurre in Europa i principi di quel neoliberismo i cui effetti sono oggi sotto gli occhi di tutti. Ben inteso: che il dominio economico costruisca la politica non è una novità storica. È semmai una prassi. Ma nel caso della Germania, il vero esperimento consisteva nel trattarla alla stregua di una nazione priva di storia perché si sgravasse del peso della memoria. Una tabula rasa politica ed economica ideale per innestarvi, attraverso il quotidiano circuito lavorativo, un sistema di mercato che fosse totalmente libero, creatore di nuova storia e di nuova linfa vitale a uno stato già avanzato. Una dinamica in progress che avrebbe permesso di saltare la normale gradualità storica e di mettere in moto una libertà economica assoluta, sopra la quale ancorare una sovranità politica. Lo Stato sarebbe sorto in seguito, naturalmente nella forma di una democrazia cristiana. E sarebbe stata questa nuova libertà acquisita a creare il diritto pubblico tedesco, rendendo la nazione perdente il cuore pulsante di una sofisticata evoluzione del capitalismo.

Un progetto facile da servire a una popolazione uscita sconfitta dalla guerra senza possibilità di appello. I partiti politici di destra e di sinistra, investitori, operai, padroni, sindacati, come un’unica entità compatta accettavano e si coinvolgevano nel nuovo gioco economico creando, inconsapevolmente attraverso automatismi lavorativi, un consenso a circuito chiuso che sarebbe diventato anche e soprattutto consenso politico. Una negazione della memoria storica e del conflitto sociale a tutto vantaggio di un’orgogliosa accettazione di massa della crescita economica nazionale.
Così Simon, atterrato per cercare una memoria, si ritrova nel mezzo di un rovesciamento dell’asse temporale. Il tempo della storia è diventato tempo comprato al minuto del libero mercato.

Mentre la Germania – vinta e senza una guerra di liberazione da presentare al tribunale della storia – negli anni dal ’45 al ’48 si è vista guidata per mano dagli Alleati verso la nuova forma di Stato democratico, l’Italia, grazie alla Resistenza, si è ritrovata legittimata a uscire dalla dittatura con le proprie forze. E il primo problema che il nuovo potere borghese ha dovuto affrontare è stato il conflitto di classe di cui erano portatori i partigiani rossi.
Questo voleva dire che gli occorreva trovare la maniera di trasformare in perdente una parte di coloro che avevano vinto. E per riuscirvi occorrevano due mosse iniziali: disarmare quei partigiani e trovare alleanze che garantissero il sostegno al governo De Gasperi. Entrambe questioni che Togliatti si sarebbe affrettato a risolvere. La prima grazie all’aiuto dei vertici del Cln, e la seconda direttamente, promulgando un’amnistia che avrebbe contribuito a rimettere in circolo nel sistema linfatico della politica uomini, strutture e istituzioni appartenenti al vecchio regime. Dinamica alla quale si sarebbe aggiunta la rimessa in sella dei capitani d’industria, adesso diventati democristiani. A sparare addosso agli operai, ora che non c’era più Balbo, ci avrebbe pensato il democristiano e antifascista Scelba con i suoi celerini, perché fossero chiari i valori del nuovo Stato liberale.

In questo modo, la Resistenza, che aveva legittimato l’Italia davanti alla storia, veniva spogliata di quella componente conflittuale che ideologicamente si scontrava e contraddiceva il nuovo potere borghese restauratore.
Nessun romanzo italiano ha fatto ritornare un Simon sulle tracce della memoria. Buon per lui, visto che cosa ne è stato della verità storica. Anche se, per trovare una situazione simile a quella incontrata dal suo omonimo tedesco, sarebbe dovuto tornare qualche decennio più tardi, nella prima metà degli anni Novanta, durante i giorni della concertazione.
Avrebbe visto i figli del fascismo tornare al governo, e i figli politici e i capitani d’industria della restaurazione sepolti da avvisi di garanzia e accusati di avere messo in piedi un sistema economico totalmente protetto e corrotto. Avrebbe assistito alla nascita e all’ascesa di un partito razzista e xenofobo. Avrebbe trovato i lavoratori narcotizzati e privati di una coscienza di classe, insieme a un ‘nuovo’ gruppo dirigente – questo sì, consapevole della propria forza di classe – pronto per una profonda restaurazione produttiva, che avrebbe ridotto l’impresa a semplice contenitore organizzativo di risorse, rivoluzionato il mercato del lavoro e i suoi rapporti di produzione, sconvolto l’intera struttura sociale del Paese; deciso a sferrare l’ultimo attacco ai lavoratori. Violento, seppure per altre vie, quanto lo squadrismo del 1921.

Mantenuto in vita quando sarebbe dovuto morire, il fascismo è stato dal ’45 a oggi utilizzato dal potere (inteso nella commistione mafia, politica e industria) ogni qualvolta la democrazia si dimostrava troppo debole nei confronti della piazza. Fino a renderlo, tra progetti eversivi e tentativi di golpe, presenza costante della vita sociale e politica del Paese, al punto di influenzarne le scelte e di agire, in completa complicità con gli apparati militari e i servizi segreti, in funzione di forza paramilitare nel conflitto di classe contro gli operai, con stragi ed esecuzioni mirate.
Ma non vanno dimenticati i cospicui finanziamenti provenienti da grandi industriali. È sufficiente ricordare il supporto economico, logistico e spirituale garantito, nel bresciano, dai ‘re del tondino’ negli anni Settanta a giovani neofascisti (1), o i fiumi di soldi versati nelle casse del Msi di Almirante, di Leghe, di gruppuscoli della destra eversiva, da parte di industriali, albergatori, agrari e banchieri.

La massiccia rimozione ha mostrato i suoi frutti, coloriti e sani, nel 2008. I saettanti saluti romani che hanno accolto l’elezione a sindaco di Roma di Gianni Alemanno sono stati l’inizio, non di una resurrezione giacché solo chi muore può eventualmente risorgere, ma di una rivendicazione di spazio, chiesta a chi ha raccolto politicamente l’eredità dei massacratori del Ventennio. A un uomo che crede e sostiene essere la promulgazione delle leggi razziali l’unico errore di Mussolini; lo dicono anche calciatori, attori, lo si fa credere in programmi televisivi; lo sostiene La Russa, che ancora in una commemorazione è riuscito a celebrare la brigata Nembo. Salvo poi negare in maniera indiretta la stessa faticosa ammissione, chiedendo la repressione e la deportazione di extracomunitari ogni volta che qualcuno di loro viene coinvolto in un fatto di nera, e spingendo gli italiani all’odio, com’è strategia della Lega, facendo loro credere che la disoccupazione sia colpa dello straniero che gli porta via casa e lavoro.

Tuttavia i paragoni con il 1921 e gli anni Settanta sono impropri. Mentre allora il fascismo è stato usato per prendere il potere o come strumento di difesa da parte delle classi dominanti, oggi i gruppi neofascisti, come quelli di Fiore, della Mussolini, di Tilgher, di Adinolfi o di Romagnoli, esigono una legittimazione politica. E il guaio è che dal loro punto di vista hanno persino ragione a chiederla. Perché oggi il fascismo, seppure nella sua forma più moderna realizzata nel programma della P2 di Licio Gelli, seppure riuscendo ad apparire più velato dalle maglie di fasulle maschere democratiche, c’è! Permane e affligge ancora gli italiani, compresi quelli che credono di volerlo. È qui, presente, tra le righe della riforma della giustizia, nel pacchetto sicurezza, nella militarizzazione delle città, nella distribuzione di telecamere a ogni angolo, nella social card per i poveri; c’è nel consumismo, nell’analfabetismo di ritorno, nel liberismo protetto dei capitani d’industria e nel precariato in cui essi costringono la vita dei lavoratori, nella sottocultura politica degli italiani, nelle tante celebrazioni e nelle ricorrenze che sotto sotto mirano a salvaguardarne il retroterra culturale.

E quanto la rimozione sia stata conveniente alla sinistra quanto alla destra è testimoniato dai fatti della storia più recente. A Fini ha dato occasione di riciclare se stesso e di trasformare Alleanza nazionale da partito fascista a partito conservatore – ed essere così più presentabile in Europa – al semplice prezzo di un’abiura molto ambigua e un giorno della memoria; alla sinistra ha permesso di spennare la Resistenza, per bocca di Violante, fino a denudarla completamente di qualunque connotazione rivoluzionaria, occupare così uno spazio politico di centro e vendersi definitivamente ai poteri forti del capitale.
Ai capitani d’industria, ai banchieri, agli speculatori della finanza i quali oggi, dietro la plastica della mediazione politica democratica e del cosiddetto benessere creato dal consumismo, non hanno smesso di riprodurre, nel mercato del lavoro, condizioni di sfruttamento e di controllo che da sempre negano i tanto esaltati principi democratici. Le medesime sotto il fascismo e in democrazia. Tant’è che per queste persone le cose non sono mai cambiate, visto che di qualunque regime sono i finanziatori e i diretti responsabili di quanto accade alla popolazione. Cadono i dittatori, cadono i governi, eppure loro sono sempre lì, immobili e immortali.

Peccato, comunque. Sarebbe stata una bella sorpresa per gli italiani scoprire che gli uomini del duce non hanno ucciso solamente Giacomo Matteotti come per anni hanno fatto credere loro! Che colpo accorgersi d’un tratto che la guerra civile – che c’è stata, eccome – non l’hanno iniziata i partigiani nel 1943, bensì gli industriali e gli agrari nel ’21 per difendersi dai moti del biennio rosso, durante i quali i lavoratori, i proletari e i sottoproletari avevano rivendicato dei diritti davanti ai capitalisti che si erano vergognosamente arricchiti durante la grande guerra: sfruttando gli operai fino al midollo, producendo scarpe di cartone e divise di cotone per “i coraggiosi soldati italiani” (per dirla come La Russa) mandati a morire al fronte.
Già, ma poi il fattore economico rischierebbe di diventare parte integrante della storia. Allora, magari, sarebbe tutta un’altra storia.

Walter G. Pozzi

(1) La sottile linea nera, Mimmo Franzinelli, Rizzoli


Qualche notizia sull'autore: Walter G.Pozzi


"Trent'anni della mia vita li ho buttati, per altri cinque ho dormito, e cinque, finalmente li ho vissuti" questo è quanto il monzese Walter G. Pozzi ripete a chi gli chiede qualcosa sul suo passato.
Walter G. Pozzi si forma culturalmente negli anni Ottanta, negando con forza il vuoto di valori che sta sorgendo in quel periodo storico. Pessimo studente liceale, inizia a studiare seriamente al termine degli anni scolastici, nell'idea di intraprendere la carriera di scrittore. Per questo va a vivere da solo e comincia ad affrontare in maniera traumatica il mondo del lavoro, s'improvvisa consulente finanziario, insegnante di tennis, ma si scontra immediatamente con la deludente realtà. Il suo amore per la lettura, nel frattempo, si concretizza in una passione per la scrittura sempre più intensa. Un paio di romanzi portati a termine rimangono nel cassetto, censurati dal loro stesso autore, finché, nel 1995, termina la stesura de Il corpo e l'abbandono. Cinque mesi dopo averlo proposto alla Tranchida, riceve una telefonata dell'editore che lo convoca in sede.
È l'inizio della sua carriera letteraria. Cura la pubblicazione di un libro di Proust dal titolo Personaggi e di una raccolta di racconti dello scrittore anglo-birmano Saki pubblicato con il titolo Gatti, lupi e altri animali. Nel 1997 esce il suo romanzo Il corpo e l'abbandono.
Critiche positive e incontri con il pubblico e l'idea per un nuovo lavoro che esce tre anni dopo, nel 2000, con il titolo L'infedeltà. Il discreto successo di quest'ultimo romanzo gli procura ingaggi inattesi come docente di scrittura creativa presso biblioteche e scuole che lo convincono a intraprendere una nuova carriera lavorativa maggiormente consona ai suoi interessi culturali.
E questa volta, la nuova attività gli consegna quelle soddisfazioni mai incontrate in altri lavori, e nuove energie per riprendere a scrivere.
Così, con qualche sacrificio economico, ma molto più tempo libero e disposizione, termina il suo terzo romanzo, Altri destini.

Nei romanzi di Walter G. Pozzi ricorre con frequenza la figura dell'individuo insoddisfatto, per quanto socialmente inserito, costretto da un episodio a rivedere le proprie scelte esistenziali.
I personaggi di Pozzi sembrano creati per dimostrare l'inconciliabilità tra vita e ideali e la necessità di accettare, solamente dopo avere compreso il perché dell'inevitabilità della frustrazione, e sembrano ammonire il lettore a farsi carico dell'ambiguità che sempre pervade le cose umane.

Ucciso dal male cui aveva dedicato la vita

articolo del 26 gennaio-Controsenso-

Il Dott.Ricciuti, Presidente dell'AIL stroncato da una leucemia fulminante.
Il lutto del volontariato.

Attestati di stima e di cordoglio da parte del mondo istituzionale, sanitario e del volontariato sono giunti appena la notizia della scomparsa del Dott. Francesco Ricciuti,è stata diramata.

Si è spento il 18 gennaio scorso, a Milano, dove stava combattendo contro il male che per tanti altri aveva imparato a contrastare.

Ematologo, ricercatore ed uomo impegnato nel mondo del volontariato-fondatore nel 1995 dell’Associazione Italiana Leucemia sezione di Potenza - ha rappresentato un grande punto di riferimento per la sanità lucana e non solo.

Da attento interlocutore nella discussione sul piano sanitario regionale del 1997, come pure la sua prestigiosa attività di medico e ricercatore all’ospedale San Carlo di Potenza, aveva ben compreso la necessità di rendere il servizio sanitario più efficace attraverso la collaborazione sinergica tra il mondo sanitario e quello del volontariato.

Con la sua direzione di consulente scientifico e con la collaborazione di medici specializzati ed infermieri professionali, l’AIL iniziò a svolgere il servizio di assistenza domiciliare gratuita per gli omeopatici residenti non solo nel capoluogo potentino ma anche nei paesi della provincia.

Da allora, l’obiettivo di favorire il miglioramento dei servizi e dell’assistenza socio-sanitaria ai pazienti potentini promosso dall’associazione ,ha ampliato il proprio campo di azione offrendo sostegno anche ad ammalati provenienti da paesi esteri quali Albania, Iraq, Eritrea.

Ma non solo: con l’istituzione della Casa AIL, l’associazione ospita gratuitamente i familiari degli ammalati ricoverati presso l'Ematologia dell'Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza, offrendo un’opportunità a tante famiglie che hanno trovato un sostegno certo.

In tal senso, la mission dell’associazione si è rivelata interessante e di forte sostegno sociale in quanto la collaborazione tra le due realtà, quella del volontariato e quella sanitaria ha fatto si che ci fosse un’ efficace interazione tra i modus operandi e agendi delle stesse.

Infatti,l’AIL Potenza, facendosi carico delle necessità degli ammalati, ha acquistato e installato gli impianti necessari per realizzare 4 camere sterili necessarie per l’autotrapianto di midollo osseo, mettendo a disposizione dell’Azienda Ospedaliera S. Carlo una cospicua somma di denaro al fine di rendere efficace e continuativa l’offerta al paziente.

Inoltre,precedentemente, l’AIL aveva donato alla Divisione di Ematologia macchine ed attrezzature per effettuare il medesimo tipo di trapianto.
tutto questo inserito in un progetto più ampio dove l’assicurare una formazione di alto profilo medico scientifico agli operatori sanitari, era, come poi si è rivelato essere, un importante passo in avanti nella ricerca delle cure per i malati leucemici.

L’evoluzione del progetto ha poi trovato riscontro in quella che è stata la scelta concertata dall’Azienda Ospedaliera e dall’AIL, di avviare un gemellaggio con l’Istituto di Ematologia dell’Università degli Studi di Perugia.,senza dimenticare l’importante supporto psicologico ai pazienti in trattamento ed ai loro familiari. Dal 2002, l’AIL Potenza, avvalendosi della collaborazione di una psicologa, assicura un valido supporto psicologico agli ammalati e alle loro famiglie, soprattutto laddove sono presenti sintomi di particolare fragilità e vulnerabilità. L’assistenza psicologica viene offerta presso l’U.O. di Ematologia dell’Ospedale San Carlo di Potenza, presso la Casa AIL e a domicilio dei pazienti e dei familiari a Potenza e in tutti i paesi della provincia. Inoltre dal marzo 2005 è attiva una convenzione con l’Università La Sapienza di Roma, per lo svolgimento del tirocinio dei laureati in psicologia.

Tutto questo, fino a qualche giorno fa , grazie anche al supporto e alla grande umanità e professionalità del Prof. Ricciuti, testimone di vita e di professionalità al servizio della gente

Un anno all’insegna del “Sangue Donato”: il volontariato oltre se stesso.

articolo del 5 gennaio 2011-Controsenso-


La solidarietà è ovunque”: è lo slogan con il quale la Fidas di Bernalda e Metaponto ha salutato l’anno appena concluso e quello che è appena entrato.

E lo ha fatto attraverso una partecipata donazione di plasmaferesi nel dicembre scorso e con la 3° edizione del trofeo Metabos, importante manifestazione interregionale di Cyclocross organizzata in collaborazione con la Soprintendenza dei Beni Culturali, l’associazione sportiva re-Cycling di Bernalda e quelle ciclistiche di Puglia e Basilicata, il tutto in una cornice davvero suggestiva qual è quella offerta dalla collinetta artificiale che circonda il Museo di Metaponto.Quasi a ricordare le radici di questa parte di regione che affondano nella più antica storia dei tempi e dei giochi della Magna Grecia.

Una gara che ha visto le diverse associazioni di ciclo sport, coinvolte per una tre giorni in un programma fatto di visite guidate al Museo di Metaponto e ai Sassi di Matera, unite alla donazione di sangue nella sede della Fidas di Metaponto.

Un connubio in cui sempre più la Fidas crede e scommette, puntando sul territorio e sulla società tutta perché il messaggio della donazione del sangue venga da tutti recepito come bene comune e di indispensabile valore collettivo.

E lo dimostrano il numero delle manifestazioni e delle donazioni che hanno caratterizzato questi 16 anni di associazionismo.”Constato con orgoglio che abbiamo registrato un incremento del 10% di donazioni di sangue rispetto all’anno scorso e del 15 % di plasma;-afferma il Presidente Regionale Fidas, Paolo Ettorre - il tutto, maggiormente, se si considera l’importante lavoro di rete e collaborazione con tutti gli attori del territorio, a partire dalla istituzioni fino alle altre associazioni che condividono con noi il grande valore del dono volontario.

E’ grazie ai tanti donatori che fanno parte della nostra associazione, che siamo anche riusciti con grande orgoglio a sopperire alla mancanza di autosufficienza di sangue di cui, regioni come il Lazio, ad esempio,soffrono. Infatti, la Basilicata cede per compensazione circa 4000 sacche di sangue all’anno al Lazio e, una grande parte di queste sacche ci vengono fornite proprio da quelle che sono le sedi più attive della nostra provincia come ad esempio Metaponto, Bernalda, Salandra Grassano ed Irsina.

E se si tiene conto che la nostra associazione, vede un numero sempre più crescente di volontari impegnati ad aprire una sede associativa lì dove non esiste, questo si che è un grande motivo di fierezza per tutta la collettività lucana.”

Ne è un esempio la neonata associazione “Give Life”, la federata Fidas di Scanzano Jonico che, alla sua prima giornata di dicembre, ha registrato un alto numero di donazioni, e conta di coinvolgere sempre più volontari.

In effetti, se da una parte la politica e la società sembrano non accorgersi della ricchezza data dall’attivismo dei volontari , dall’altra vi è una grande realtà che in maniera silenziosa si adopera per mantenere alti quei valori di solidarietà e di civiltà tipici del popolo italiano.

Ed è in tal senso che le reti di volontariato che si sono formalizzate e nelle quali la Fidas ne è parte integrante, trovano terreno fertile per operare secondo la propria mission associativa orientando la propria azione verso i bisogni collettivi. Perchè, in una regione in cui molte sono le problematiche sociali, solo l’unione di tante forze collettive associazionistiche unite a quelle istituzionali, possono fornire l’alternativa e proporre una nuova visione di welfare di cui sempre più il popolo lucano necessita.

Perché se i problemi sono tanti, la solidarietà è ovunque. Basta crederci

un fiume di parole contro il silenzio

articolo tratto da l'Unità del 22 gennaio 2011

Dal 12 agosto 2009, con un'intervista a Nadia Urbinati di Concita De Gregorio abbiamo aperto il dibattito su l'Unità sul "silenzio delle donne". Da quel giorno abbiamo ospitato lettere, messaggi, commenti, analisi. Dal ragionamento volutamente "lieve" di Serena Dandini alla provocazione sul mutismo femminile di Benedetta Barzini. Ogni giorno parole per rompere il silenzio sul sessismo del premier, il velinismo, la festa di Casoria, le escort a Palazzo Grazioli. Una rivoluzione interrotta secondo Lidia Ravera. Per questo - scrive Dacia Maraini - bisogna alzare la voce contro le discriminazioni. Un dibattito serrato, commentato dai lettori con passione. Come se fossimo usciti/e dal letargo. Ma non basta l'indignazione, dice Alessandra Bocchetti. Bisogna governare. Soprattutto - parole di Luisa Muraro - se a governarci è il genere.

Parole. Per spezzare il silenzio. Le parole di Iaia Caputo contro il potere della tv, quelle di Rita Borsellino per riprendersi il tempo. Le parole di Nicla Vassallo che chiama a raccolta anche gli uomini, come Tiziana Bartolini. Mezz'ora di protesta al giorno, scrive Lorella Zanardo, attraverso gli strumenti della democrazia orizzontale per ritrovare la voce. Il governo che silenzia è "un danno per gli uomini", dice Joanna Bourke. "Rompere il silenziatore", insomma, per citare l'intervento di Livia Turco. Ma i diritti non sono ereditari e l'assuefazione ci ha spente - aggiunge Simona Argentieri - che invita le donne a esprimere la propria rabbia, a scendere in piazza.

Parole. Un fiume di parole. Di proposte. Di racconti, come quello che ci ha regalato la modella-scrittrice Aminata Fofana. Parole per ritrovarsi, riattivare la memoria. Come scrive Marisa Rodano che ricorda il valore delle lotte femminili nella democrazia. Le parole di Loredana Lipperini, di Vittoria Franco, di Jimenez Bartlett e Maite Larrauri, di Elettra Deiana, di Paola Gaiotti De Biase e Edda Billi, di Tiziana Bartolini, Ida Dominjianni e Susanna Nicchiarelli. Della giovane storica Enrica Asquer e della partigiana Marisa Ombra. Parole scritte. Parole dette nel forum con Nadia Urbinati, Paola Concia, Vittoria Franco, Susanna Cenni, Alessandra Bocchetti, Maite Larrauri, Siriana Suprani e la regista Lorella Zanardo.

Questo fiume di parole che ha rotto il silenzio.

venerdì 21 gennaio 2011

Donne, ci vuole governo. Non basta l’indignazione


Care donne, perché proprio noi dovremmo sentirci “indignate” dalle squallide perfomance sessuali vere o inventate del nostro Primo Ministro? La dignità dell’essere donna non dipende certo dalla volgarità, dal non rispetto altrui. La dignità delle donne c’è, è guadagnata sul campo, per prima cosa per essere semplicemente venute al mondo a condividere l’esperienza umana e poi per l’enorme lavoro di creazione, di mediazione, di organizzazione che è la nostra specialità, imprescindibile per l’esistenza di una società. Personalmente non credo che in questa deplorevole situazione, in cui il nostro paese si trova, rischiamo di tornare indietro. La coscienza che tante donne hanno guadagnato non si può perdere così, né si può perdere la libertà che per prima è stata guadagnata dentro di noi. Certo possiamo soffrire di più, ma anche la sofferenza può essere un’opportunità. È questa,mi sembra, la nostra situazione attuale.

Ci vogliono indignate, indignate come signore in un salotto vittoriano alla notizia che siamo parenti delle scimmie. Ma non è più quel tempo. E ben sappiamo che l’indignazione è un sentimento impolitico per eccellenza. Né indignazione, né protesta, né vittimismo quindi, ci vuole molto di più. Ci vuole governo. Ma che cosa è governare? Governare è far sì che la società registri la presenza di soggetti nuovi. Ogni classe sociale che si è affacciata alla storia ha governato, cambiando l’assetto della società, facendo registrare nuovi bisogni, dando nuove idee, modificando priorità. Ricordiamoci che noi non siamo una classe sociale, siamo molto di più. E abbiamo già governato. Questo sì che non ce lo dobbiamo dimenticare. Abbiamo governato quando abbiamo fatto passare la legge sull’aborto, lì il nostro paese per la prima volta è stato costretto a registrare la nostra presenza, le nostre priorità, la nostra visione del mondo. Che non era certo una visione di morte,come tanti vorrebbero farla passare, ma una visione di amore profondo per la vita, di tante donne che sarebbero scampate alla morte e di bambini che sarebbero nati desiderati e in condizioni di vita decorose. Abbiamo avuto la forza di imporre la nostra visione. Vedete quanto è ancora attaccata questa legge, attaccata con astio, con risentimento, perché è stata una legge voluta profondamente dalla maggioranza delle donne, che conoscono le umane cose, come mai gli uomini conosceranno. Sì, c’è un abisso tra donne e uomini, un abisso fatto di natura, di storia, di sofferenza. E questa sofferenza che tanta paura mi faceva quando ero una giovane donna, adesso io la rivendico con tutto l’amore e la pietà di cui sono capace.

C’è chi dice che questo è tempo di amicizia tra donne e uomini, sono proprio d’accordo. L’amicizia è un sentimento che pone condizioni, non si da mai per niente. Che venga il tempo dell’amicizia, perché il tempo dell’amore non ha dato i frutti sperati. Non ci vuole indignazione, ci vuole governo. Non illudiamoci che ci sia qualcuno a cui delegare la nostra parte. La “sinistra” – si potrà ancora dire questa parola?- è stata una grande delusione, la destra fa il suo mestiere. Ma in verità questo è un paese che ormai non ha né destra né sinistra. E noi non abbiamo alleati “naturali”, facciamocene una ragione, abbiamo sì amici, un po’ qua e un po’ là. E con questi amici ci dovremo arrangiare. La Chiesa poi non ha mai amato le donne. Quali sono state per noi le mancate occasione di governo? Certamente la legge sulla maternità assistita che ha avuto la pretesa di ridurre il nostro corpo a contenitore, a “disprezzato” contenitore, perché chi propone l’impianto di un embrione forse malformato è uno che disprezza il corpo di una donna. La libertà di coscienza che la “sinistra”ha lasciato ai suoi parlamentari per votare questa legge, ancora mi offende e purtroppo la dice lunga sul suo futuro impossibile. Tante occasioni di governo abbiamo mancato. L’ultima: quella buffonata del testamento biologico che abbiamo sul tappeto in questo momento.

E poi? E poi c’è il paese, che riguarda anche noi, non ce lo dimentichiamo, perché noi ci siamo, ci viviamo, ci lavoriamo, ci paghiamo le tasse. E poco ci importa quello che fa Berlusconi nelle sue cenette, se dobbiamo comperare la carta igienica per la scuola dei nostri bambini, se gli asili nido sono carissimi, se le banche sono in stretta creditizia, se la ricerca non viene finanziata, se le maestre e gli insegnanti sono sull’orlo della povertà, se la televisione fa schifo, se esiste una corruzione capillare, se governa un sistema “di amici” e non di meriti, se c’è una politica che governa perfino le assunzioni a chi spazza le strade, se l’università fa scappare i più bravi, se gli omosessuali vengono picchiati per la strada, se l’informazione viene addomesticata, se “chi se ne frega del paesaggio”… e poi le ronde, chi se lo sarebbe immaginato! e i dialetti… e gli inni… potrei continuare. Sì, non indignazione, serve governo, care compagne mie. Contiamoci per contare, ma per contare veramente, senza andare dietro a nessuno, per dettare le nostre condizioni. programma per una vita migliore. Possiamo farlo, perché, sembra un paradosso, ma questo è proprio il nostro tempo.


nota pubblicata sul mio profilo facebook il 4 novembre 2010

QUANDO LE DONNE SONO SOTTO TIRO


Tre mesi, tre casi di cui si è venuti a conoscenza per la drammaticità delle situazioni e per il coraggio della denuncia. Avvengono nella ridente cittadina materana, città esemplare e tranquilla, dove”si può camminare fino a tarda notte senza paure e senza timori”-affermano dei giovani studenti universitari.

Eppure,ciò che è accaduto a due ragazze adolescenti , una vittima di abusi del branco amico e, l’altra molestata continuamente dal padre sin da piccola, se sommati all’omicidio da parte di un ex marito che già tempo addietro aveva tentato di ucciderla,tutto sono tranne che sintomo di una tranquillità sociale e civile che investe e nel contempo stravolge la tranquillità di una collettività.

Eppure, sono anni che ci si sofferma ad analizzare lo status quo della condizione femminile e ciò che appare chiara è l’emancipazione della maggior parte delle donne che studiano, si laureano, fanno lavori che fino a qualche decennio fa erano solo prerogativa maschile. Donne decise, argute, leader di grandi società per azioni o impegnate in politica per meglio recepire le istanze della società di oggi.

Ma esiste una realtà sommersa, che torna a far clamore anche solo quando sono le cronache a rilevarle e nonostante il 25 novembre si celebri in tutto il mondo la “Giornata contro la violenza sulle donne” per ricordare le tre sorelle Miraball, torturate, stuprate e uccise dai militari del dittatore Trujillo, nel 1960 a Santo Domingo, il messaggio non sembra giungere all’interno della cellula più importante della società,la famiglia.

La violenza contro le donne ha molte facce: le uccisioni e gli stupri sono gli aspetti più drammatici delle violenze che si consumano dentro e fuori le mura domestiche, nei luoghi di lavoro, per le strade. I dati riguardanti le violenze subite dalle donne sono preoccupanti.

I dati Istat 2010 affermano che “Il fenomeno della violenza e dei maltrattamenti contro le donne ha, nel nostro Paese, ha una grande rilevanza: sono stimate in quasi 7 milioni le donne italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito nel corso della vita, dentro o fuori la famiglia, una forma di violenza, fisica o sessuale.

1 milione 400 mila donne hanno subito forme di violenza sessuale prima dei 16 anni; oltre 7 milioni di donne hanno subito o subiscono violenza psicologica. Spesso, inoltre, coloro che subiscono forme di violenza psicologica sono anche vittime di violenze fisiche o sessuali.”

L’OMS afferma che 1 donna su 5 ha subito, nel corso della sua vita , abusi fisici o sessuali e, i dati inerenti il 2008 mostrano tra i casi rilevati, circa 1milione e 150 mila, quelli risultanti dal nord/centro 42 %, Emilia Romagna e Lazio 38% e Liguria 35% della popolazione femminile.

Il numero di donne che sporge denuncia sono inferiori alla media nazionale soprattutto nelle regioni del Sud, dove la percentuale sale del 26% se ci si riferisce a casi di stupri o tentati stupri e, a coloro che si considerano vittime di reato.

Solo il 4, 1 % denunciano lo stato di violenza, sempre al Sud.

La Basilicata, benché terra cresciuta nel rispetto delle regole e dell'essere umano e che rientra tra i territorio più sicuri d'Italia, non è esente da questo fenomeno.

Nella nostra Regione sono stati registrati 436 casi in provincia di Matera e 13 nella provincia di Potenza nell’ultimo biennio.

La violenza in discussione è di forma domestica e si consuma in una situazione familiare caratterizzata da disoccupazione e squilibri familiari aggravati da alto consumo di alcool e/o stupefacenti.

I dati di cui parliamo sono il risultato di denuncie fatte attraverso avvocati, psicologi e forze dell’ordine e risultano essere numericamente inferiori ai dati che ci pervengono attraverso le interviste telefoniche fatte dagli enti di statistica e dall’OMS.

Questo sta ad indicare che c’è una realtà sommersa che stenta a venir fuori i cui protagonisti stentano a rivolgersi alle istituzioni per richiedere aiuto e sostegno.

Può essere questo inteso come una sorta di diffidenza nei confronti delle autorità e rappresentanze socio-politiche?

Fatto sta che le vittime con sempre piu frequenza si rivolgono ad associazioni di volontariato per confrontarsi, informarsi e soprattutto combattere, attraverso un approccio”umano”,quel senso di solitudine interiore e di isolamento che pervade la loro esistenza.

Molte sono, infatti, nella nostra regione, le associazioni che si occupano di malesseri sociali, di violenze su minori,di problemi alcoolcorrelati, dipendenze, e tentano, attraverso i pochi mezzi di cui dispongono, , di attivare tutte quelle forme di prevenzione tra cui, informazione, assistenza psicologica e di aiuto alle famiglie che possano condurre all’acquisizione dello stato di diritto che un cittadino gode nel denunciare i soprusi di cui è vittima.

Un aiuto maggiore alla solitudine sociale che emerge nella sua drammaticità, potrebbe essere data da una maggiore sensibilizzazione e da azioni politiche tendenti in primis a controvertire le tendenze disoccupazionali e consecutivamente quelle di emarginazione che la nostra regione mostra soffrire con sempre più preoccupante drammaticità.

Antonella Melillo
da "Controsenso"del 16 dicembre 2010

Quando si beve fino allo sballo

articolcolo scritto su Controsenso il 19 gennaio 2011

Dilaga tra i giovani in Basilicata la moda del binge drinking, una pratica dagli effetti devastanti.

Per i consumi giornalieri di alcol la regione si colloca al settimo posto in Italia. E non funziona la legge che vieta la vendita ai ragazzini.

E’ un argomento di preoccupante importanza ma mai abbastanza approfondito quello che riguarda il consumo di alcol tra i giovani.

E lo è maggiormente se si prendono in considerazione i dati che ci vengono forniti sia dall’Oms che dall’Istat in materia di consumo tra i giovani, nella nostra regione.

La Basilicata è al tredicesimo posto, per consumo annuo di alcolici da parte di ragazzi dagli undici anni in su, secondo la lettura dei dati contenuti nell’ultima relazione disponibile, riferita al biennio 2005/2006, del Ministero della Salute al Parlamento.

Per quanto riguarda invece i consumi giornalieri, e sempre secondo la relazione stilata dal ministero della Salute, la Basilicata si attesta al settimo posto con una percentuale del 34 virgola 7 percento.

La ricerca evidenzia che oltre il 17% degli under 15 ha consumato almeno una bevanda alcolica nel 2008, in particolare il 19,7% dei maschi e il 15,3 delle femmine, mentre già a partire dai 18-19enni i valori di consumo sono prossimi alla media della popolazione, cioè il 74,7% dei maschi e il 58% delle donne.

Con una nuova tendenza:quella del binge drinking, del bere per lo sballo, sempre più diffusa come lo sono le occasioni di consumo, lontano dai pasti: a rischio sono soprattutto i più giovani e le donne il cui consumo di alcolici è aumentato del 23,6% negli ultimi 10 anni.

I giovani di 18-24 anni rappresentano il segmento di popolazione, dopo gli anziani, in cui la diffusione di comportamenti a rischio è più alta. In tal senso, l’OMS raccomanda la totale astensione dal consumo di alcol fino ai 15 anni. Per questo motivo, per i minori di 11-15 anni viene considerato come comportamento a rischio già il consumo di una sola bevanda alcolica durante l'anno. In quest'ottica, le quote di popolazione a rischio sono molto rilevanti e con differenze di genere meno evidenti che nel resto della popolazione: 19,7% dei maschi e 15,3% delle femmine. Anche tra i ragazzi di 16-17 anni il quadro della diffusione di comportamenti di consumo a rischio è piuttosto critico: 14,9% dei ragazzi e 6,8% delle ragazze ne dichiara almeno uno. Inoltre, già a questa età il binge drinking raggiunge livelli prossimi a quelli medi della popolazione: rispettivamente 10,6% per i maschi e 3,9% per le ragazze. L'abitudine al consumo non moderato di bevande alcoliche da parte dei genitori, inoltre, sembra influenzare il comportamento dei figli. Infatti, è potenzialmente a rischio il 22,7% dei ragazzi di 11-17 anni che vivono in famiglie dove almeno un genitore adotta comportamenti a rischio nel consumo di bevande alcoliche. Tale quota, invece, scende al 15% tra i giovani che vivono con genitori che non bevono o che comunque bevono in maniera moderata.

Questi i dati ufficiali che nonostante la vigente normativa sul divieto di somministrazione ai minori di 16 anni, sicuramente non lasciano dubbi.

Una maggiore sensibilizzazione e delle campagne educazionali rivolte a genitori ed educatori potrebbero, sempre secondo il ministero della Salute, ridurre il livello dei consumi giovanili e ritardare l’età del primo approccio con le bevande alcoliche.

Antonella Melillo