domenica 9 ottobre 2011

BENE PUBBLICO:Come difendersi da liberisti e populisti?

Se ancora una qualche parvenza di funzione pubblica continua ad esistere
in questo malandato Paese, lo si deve soprattutto al sacrificio quotidiano
di singole persone, di associazioni,di amministratori e di dirigenti responsabili.
Nel degrado di un’amministrazione da anni abbandonataall’incuria, servizi pubblici dignitosisono offerti ai cittadini solo perché tanti insegnanti, infermieri,impiegati, ricercatori, medici,militari, sindaci coprono le falle diuna macchina resa inanimata dalle prolungate amputazioni finanziarie.
Senza mezzi, con un turnover bloccato, con macchinari usurati e in edifici degradati in tanti si dedicano con dedizione al bene pubblico e ricevono in cambio solo magri stipendi, contratti temporanei e un abbondante supplemento di insulti che proprio i ministri spesso si incaricano di recapitare loro per ottenere una gratuita popolarità.
L’ideologia della destra, sempre assecondata dalla grande stampa di opinione, è quella del pubblico come santuario del privilegio abitato
da sterminati eserciti di fannulloni.
I governi hanno fatto di tutto per distruggere ogni traccia di pubblico. In nome del merito sono state umiliate scuola e università,colpite dai nuovi barbari con immagini caricaturali. Da anni Tremontiagita le forbici per ordinare i tagli lineari ad ogni comparto pubblico, dalla scuola alla sanità,dalla giustizia alla sicurezza. Parole offensive e norme punitive sono state le sole risposte che i governi hanno fornito al forte bisogno di
un ammodernamento della sfera pubblica nell’età della sussidiarietà
e del decentramento amministrativo.
Così però, a causa della ferocia distruttiva dello spazio pubblico
che assume il nome deviante di riforma, l’Italia regredisce velocemente
in tutti gli indicatori di qualità della vita, di propensione
all’innovazione e di efficienza dellastruttura amministrativa. Lo
smembramento della amministrazione calpesta le sedi istituzionali
necessarie per implementare la legislazione appena varata e destinata
a smarrirsi nei labirinti della prevedibile mancata attuazione.
Il fatto è che, per motivi organici al suo credo, il populismo assumeil
pubblicocomeil nemico principale.
Dipingendo il pubblico come un costo inutile e quindi come un fardello duro da sopportare per i laboriosi uomini del fare, esso raggiunge un facile consenso per poter smantellare ciò che ancora resta di uno Stato sociale sempre più residuale. Inoltre, proprio calpestando
ogni nozione virtuosa di pubblico, il populismo giustifica i comportamenti poco edificanti di una vasta componente della società che evade sistematicamente il fisco e prosciuga così la fonte stessa delle politiche pubbliche. La ricchezza privata preferisce racimolare nel mercato i servizi necessari o adoperare in modo parassitario quelli che soprattutto i lavoratori pagano con le trattenute alla fonte e così, nel buco gigantesco delle entrate fiscali, la tragedia del pubblico e l’eutanasia dei beni comuni si possono consumare.Il degrado delle città infinite e le
isole di opulenza delle micro città private convivono nello stesso spazio
guardandosi in cagnesco. Le telecamere poste a presidio della sicurezza
della privata isola del lusso sono minacciate da una città sempre più inospitale e aggressiva,con strade ridotte a pattumiera e con luoghi di ritrovo abbandonati allo scempio. Il populismo, demolendo le politiche pubbliche di inclusione sociale, costruisce un muro tra due società rese ostili. Occorre reagire a questa entropia del pubblico che azzera i fondi per la scuola, umilia la ricerca, sospende i servizi e getta l’Italia tra le retrovie dei paesi civili. Nel deserto del pubblico crescono solo gli indici di diseguaglianza.

(MICHELE PROSPERO)

La gande sfida dell'economia sociale

Terzo settore. Terzo rispetto a stato e mercato: fornisce servizi di rilevanza sociale e pubblica, ma si sottrae alla logica della ricerca del profitto che caratterizza le imprese commerciali, così come alla rigidità burocratica della gestione pubblica diretta. Sfugge dunque alla tradizionale contrapposizione tra pubblico e privato. Suscita istintiva simpatia perché mobilita energie appellandosi a principi di cooperazione, solidarietà e reciprocità. Ma attira anche diffidenza.

A destra c’è il timore che dietro al favore fiscale e al sostegno pubblico alle realtà “non per profitto” si nascondano forme di concorrenza poco leale verso le imprese for profit e di indiretta espansione dell’area dell’economia assistita. A sinistra c’è la paura che la retorica della «grande società» segni un arretramento dell’impegno sociale delle istituzioni pubbliche, una deresponsabilizzazione collettiva; c’è il sospetto che il vantaggio competitivo di molte forme di cooperazione e di nonprofit stia nel minore rispetto dei diritti dei lavoratori; c’è infine la preoccupazione che la delega di funzioni sociali a soggetti non vincolati a obblighi di universalismo possa portare a una balcanizzazione e a forme di selezione basate sull’appartenenza, in violazione al principio di uguaglianza. Si tratta di aspetti da prendere sul serio, con azione di vigilanza e definendo standard che preservino il principio di accesso universale. Ma l’errore più grande sarebbe sottovalutare le potenzialità e il ruolo di una realtà che è presente da sempre, ha grande rilevanza, e svolge spesso un ruolo di supplenza dove le istituzioni pubbliche sono carenti. È attraverso forme di auto-organizzazione sociale che i legami di solidarietà e reciprocità si sono strutturati, prima dello sviluppo del welfare pubblico, per rispondere ai bisogni di una società che cresceva in complessità, erodendo i legami tradizionali e familiari. Cooperazione e mutualità si sviluppavano nel credito, nella fornitura di assicurazione contro i grandi rischi dell’esistenza, di servizi all’individuo e alla famiglia. Nel corso del Novecento lo stato è intervenuto per superare le insufficienze e la frammentazione di molte di queste forme, per porre rimedio a una debolezza finanziaria che rischiava spesso di mettere a rischio l’erogazione delle prestazioni, specialmente laddove queste erano di natura assicurativa-finanziaria o dove la scala produttiva portava a chiari vantaggi. Il passaggio dalla forma volontaria all’assunzione di responsabilità pubblica nel garantire diritti universali è una conquista di civiltà che dobbiamo considerare irreversibile. Essa non esclude tuttavia uno spazio importante e complementare per questa forma «terza», specialmente nell’erogazione diretta di servizi alla persona che non richiedono investimenti in capitale e non traggono vantaggio dalla centralizzazione.

La discussione economica tende a guardare a queste realtà con sufficienza, considerando l’economia rivolta al sociale come secondaria. Eppure possono esserci notevoli benefici anche economici dal sollecitare e promuovere, da parte del pubblico, lo sviluppo del terzo settore in campo sociale. Basti l’esempio dei servizi di cura agli anziani. I vantaggi sarebbero molteplici rispetto alla situazione attuale, in cui il peso ricade quasi interamente sulle famiglie, cioè sulle donne: si risponderebbe a un bisogno in modo efficace perché organizzato e professionalizzato; si fornirebbero opportunità di impiego a molte donne che hanno visto erodersi il loro “capitale umano” per effetto della lontananza forzata dal mondo del lavoro; si alleggerirebbe infine il carico delle responsabilità di cura per molte famiglie, riducendo i costi della partecipazione (specialmente femminile) al lavoro. Anche questa è una politica per la crescita.
9 ottobre 2011-Massimo D'Antoni-

domenica 18 settembre 2011

No al taglio dell’assistenza!



La Manovra bis è stata approvata il giorno 14 settembre 2011. È stata, quindi, sospesa l’iniziativa di invio di messaggi promossa da FISH e FAND. Ringraziamo le 23.329 persone che in dieci giorni hanno aderito a questa forma civile di protesta. Un numero elevatissimo che dimostra quanto vivida sia la preoccupazione fra i Cittadini italiani riguardo alla sorte delle politiche sociali italiane. La FISH mantiene forte l’attenzione sull’iter del disegno di legge di delega sulla riforma assistenziale e si prepara a nuove e decise iniziative che avranno, ancora una volta, necessità del supporto di tutti.






Nella caotica ed incerta situazione che avvolge la discussione sulla Manovra bis, una sola decisione sembra intoccabile: la riforma fiscale e assistenziale che consenta di drenare 40 miliardi in tre anni dalle tasche delle famiglie e dai servizi alle persone.

La riforma dell’assistenza che è necessaria nel nostro Paese non è certo quella che il Governo propone. Servizi migliori, più efficienti e vicini ai diritti e ai bisogni delle persone, moderni e volti all’inclusione anziché alla segregazione, sono lontanissimi dalla volontà di chi intende comprimere ancora l’assistenza sociale, piegandola alle esigenze di cassa, sacrificandola per evitare di assumere decisioni che possano disturbare altre e più forti categorie di cittadini.

Le Federazioni delle associazioni delle persone con disabilità (FAND e FISH), rifiutano recisamente questa ipotesi che prelude al confinamento e all’esclusione di disabili, bambini in difficoltà, non autosufficienti.

Le Federazioni, coscienti del momento politico, avanzano una sola richiesta: sganciare la riforma assistenziale da ogni automatico vincolo pregiudiziale di cassa fissato dalla Manovra di luglio (Legge 111) e drammaticamente confermata da quella in discussione. Non si faccia cassa sui servizi alle persone!

Le Federazioni chiamano a raccolta non solo tutti gli aderenti, ma anche, al di là delle sigle e degli schieramenti, ogni persona con coscienza civile che abbia a cuore il futuro del nostro Paese e la sua coesione sociale. Chiedono a tutti di supportare e rafforzare la loro azione politica, e le altre proteste simili diffuse in tutta Italia, facendo sentire la voce di ognuno.

Abbiamo predisposto un semplice modulo che consente ad ognuno di aderire all’iniziativa, inviando automaticamente la conseguente protesta alla Presidenza del Consiglio, ai Ministri dell’economia e del Lavoro e ai diversi responsabili delle Commissioni parlamentari coinvolti nella discussione.

Non ci sarà mai crescita in un Paese insensibile a chi è rimasto o può rimanere indietro, in un Paese disattento a chi subisce discriminazioni e gode meno opportunità!

1 settembre 2011



FAND (Federazione fra le Associazioni Nazionali delle persone con Disabilità)

FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap)



Quello che segue è il testo sottoscritto ed inviato da 23.329 persone che riportiamo come documentazione.

al Presidente del Consiglio dei Ministri
al Ministro dell’economia
al Ministro del lavoro e delle politiche sociali
ai Capigruppo parlamentari del Senato
e ai segretari dei Partiti Politici





Oggetto: Manovra: sganciare la riforma dell’assistenza dai vincoli di cassa.



Sono un Cittadino e vorrei che questo Paese ponesse nella dovuta attenzione i diritti e le necessità di tutte le persone come ci insegna la nostra Costituzione.

Come si può pensare alla crescita e alla coesione sociale in un Paese insensibile a chi è rimasto o rischia di rimanere indietro, in un Paese che non presta la giusta e doverosa attenzione alle persone anziane, ai bambini in difficoltà, alle persone con disabilità, ai non autosufficienti?

Come si può immaginare l’uguaglianza in un Paese disattento alla discriminazione e alle pari opportunità?

Ritengo che la spesa sociale non possa essere determinata da logiche di cassa, né che i diritti civili ed umani possano essere sacrificati per compiacere interessi diversi.

In questi giorni il Parlamento è chiamato ad affrontare la discussione sulla Manovra Bis (Decreto legge 138/2011).

Fra le ipotesi al vaglio – e finora da nessuno contestata apertamente – c’è anche la volontà di varare una riforma assistenziale e fiscale con l’unico intento di recuperare 40 miliardi da qui al 2014.

La riforma dell’assistenza che è necessaria nel nostro Paese, non è certo quella che il Governo propone. Servizi migliori, più efficienti e vicini ai diritti e ai bisogni delle persone, moderni e volti all’inclusione anziché alla segregazione, sono lontanissimi dalla volontà di chi intende comprimere ancora l’assistenza sociale, piegandola alle esigenze di cassa, sacrificandola per evitare di prendere decisioni che possano disturbare altre e più forti categorie di Cittadini.

Unendomi alle preoccupazioni diffuse nel Paese e alle giuste proteste di tante parti sociali, come Cittadino chiedo di sganciare la riforma assistenziale da ogni automatico vincolo pregiudiziale di cassa come invece prevede la Manovra di luglio (Legge 111), drammaticamente confermata da quella in discussione.

Non si faccia cassa sui servizi alle persone!

Attendo una coerente e tempestiva risposta politica nel Suo comportamento parlamentare, e su questo, da Cittadino, la giudicherò.

domenica 28 agosto 2011

"Se questo è un uomo"....



Non riescono a risparmiare e i loro consumi superano le entrate, sia pur di poco. Oggi nel 38 per cento dei casi vivono al di sotto della soglia di povertà, contro la media italiana che è pari al 12,1 per cento. E' l'identikit delle famiglie di origine straniera che abitano nel nostro Paese, come emerge da un'indagine della fondazione Leone Moressa.
Il reddito annuo di una famiglia straniera ammonta mediamente a 17.400 euro contro i quasi 33mila di una italiana. Novanta famiglie immigrate su 100 hanno un reddito che deriva da lavoro dipendente (contro il 40 per cento di quelle italiane). Solo il 7.7 per cento degli stranieri ha un lavoro autonomo e appena il 6 per cento ha un reddito che deriva da capitale (contro il 21.7 della media italiana). Insomma, il profilo economico e finanziario di chi arriva nel nostro Paese è ancora diversissimo da chi ci è nato. Le famiglie straniere d'altra parte destinano buona parte delle loro entrate alle spese mensili per la casa, visto che il 79,1 per cento vive in affitto, il 9,6 per cento è in uso gratuito e solo l'11,3 per cento ha una casa di proprietà (quasi 72 italiani su 100, invece, possiedono la casa in cui abitano).
I consumi degli stranieri si attestano a 17.700 euro, contro i 24 mila euro delle famiglie italiane. Il livello di risparmio degli immigrati è dunque addirittura negativo (meno 362 euro) e a questo dato contribuiscono le rimesse che vengono destinate ai Paesi d'origine. Per quanto riguarda i consumi, invece, il comportamento degli immigrati
è molto simile a quello degli italiani: la quasi totalità delle spese è destinata a beni non durevoli: 94,9 per cento per le famiglie straniere contro il 93,1 delle italiane. Il resto all'acquisto di beni durevoili: 5,1 per cento per gli immigrati, 6,9 per gli italiani.


E quelle poche famiglie straniere che riescono a risparmiare, cosa fanno dei loro soldi? La quasi totalità li versa su un conto corrente bancario (79,6%), pochissime ricorrono a obbligazioni (1,3%), titoli di stato (0,1%) o altre forme di investimento (1,3%). Le famiglie italiane invece, sebbene l'89,5% lasci comunque depositati parte dei propri soldi sul conto corrente, mostrano maggiore varietà di investimento. Nell'11,6% dei casi possiedono obbligazioni o quote di fondi comuni, nel 9,7% titoli di stato, mentre quasi il 20% investe in altre forme (come azioni, partecipazioni, gestioni patrimoniali e prestiti a cooperative).

Secondo i ricercatori della fondazione Leone Moressa, la struttura del reddito degli immigrati conferma come loro rappresentino l'anello debole del mercato del lavoro. La crisi economica, con la perdita del posto, rischia infatti di privarli dell'unica entrata su cui possono sostanzialmente contare, quella da lavoro dipendente. Oltre a condannarli a perdere il soggiorno nel nostro Paese. Se il trend della disoccupazione non invertirà la rotta, insomma, molti altri finiranno sotto la soglia di povertà.

sabato 27 agosto 2011

Così la manovra cancella

Il vero segnale del declino politico e culturale del Paese è il posto che in questi giorni di teso dibattito sulla manovra occupa il tema occupazione, in particolare occupazione giovanile. Parliamo di tutto, dei tagli selvaggi a Comuni e Regioni, del cosiddetto contributo di solidarietà, se deve essere commisurato ai redditi o ai patrimoni. Si parla e si è parlato di tutto tranne che di lavoro. Il problema numero uno del Paese è la sua ridotta base occupazionale che ci pone all’ultimo posto in Europa.

La dura realtà è che in Italia lavorano solo 56 cittadini tra i 15-64 anni ogni 100, contro una media del 65% in Europa e del 70% nei Paesi del Nord: Germania, Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia. Questo significa che all’Italia mancano quasi tre milioni di posti lavoro per essere un Paese allineato all’Europa. L’ultima indagine di Confartigianato fotografa una situazione nota a tutti tranne che ai soloni che hanno progettato la manovra. Naturalmente all’interno di queste cifre disastrose di cui nessuno del governo si preoccupa c’è il dramma dei giovani: 1 milione e 400mila gli under 35 disoccupati ed ancora peggio va ai ragazzi sino a 24 anni. In questa fascia uno su tre è senza lavoro con un tasso di disoccupazione quasi del 30% contro una media Ue del 20%. Il problema italiano del più basso tasso di occupazione (occupati sulla popolazione 15-64 anni) europeo non è di oggi ma si è ingigantito grazie alle politiche antisviluppo e soprattutto anti occupazione di questo governo.

Perché solo in Italia lo straordinario costa meno dell’orario normale mentre in Francia e Germania costa almeno il 25% in più? Perché la Germania ha tenuto sotto controllo i livelli occupazionali anche negli anni peggiori della crisi - 2008, 2009, 2010 - favorendo orari ridotti mentre in Italia anche gli strumenti esistenti come i contratti di solidarietà sono stati applicati poco e male? Perché nell’ampio e confuso dibattito in corso sulla manovra si parla di tutto tranne che di misure efficaci per rilanciare uno straccio di sviluppo e di occupazione? Assistiamo ad una confusa discussione su eventuali contributi di solidarietà da chiedere a chi più ha ma niente si vede all’orizzonte per eventuali e necessari utilizzi di queste risorse a fini di rilancio dell’occupazione, giovanile e complessiva.

La fantasia si può sbizzarrire: ad esempio una minitassa dell’1% sui grandi patrimoni, tirando in ballo solo quel 10% di famiglie che possiedono il 45% degli 8.400 miliardi di ricchezza privata darebbe più di 10 miliardi che potrebbero andare a defiscalizzare il costo lavoro dei giovani under 35, chiedendo un contributo minimo di 10mila euro a ogni famiglia benestante ma dando un contributo significativo all’occupazione, giovanile e non.

Quando ci si lamenta della difficoltà di imprese anche artigiane di reperire mano d’opera operaia qualificata, si dovrebbe meditare sulla svalutazione sistematica del lavoro operaio, in salari e diritti - come viene fatto anche con questa manovra - senza dimenticare che parliamo di dimensioni diverse tra disoccupati e carenza di offerta di lavoro: i primi sono milioni, i secondi non arrivano a 100mila. Bisognerebbe anche meditare sul doppio mercato del lavoro che ha richiamato 4 milioni di immigrati tra il 2000 ed il 2010. Il mercato del lavoro di bassa manualità è così mal trattato che ad esso rispondono solo gli immigrati, mentre la domanda di lavoro di media ed alta qualità è bassa perché il tasso di innovazione e tecnologico del sistema Italia è basso.

Scuola, cultura, ricerca ed innovazione non sono mai state nell’agenda prioritaria di questo governo, col risultato che sia le produzioni innovative che i posti lavoro qualificati sono carenti ed alimentano un doppio mercato del lavoro: nel biennio 2008-20010 l’occupazione si è ridotta di più di 500mila unità ma l’occupazione italiana si è ridotta di 800mila mentre quella straniera è aumentata di 300mila. È il comportamento classico di un mercato del lavoro stanco e asfittico, dove finisce per funzionare abbastanza bene solo il ricambio di lavori di bassa e media qualifica, quando i vecchi vanno in pensione.

L’Italia non cresce e invecchia male: da anni facciamo quasi la metà di figli dei francesi e nessuna politica pro lavoro, pro giovani e pro famiglia. Se non cogliamo l’occasione della manovra per cercare di ovviare al più grave problema economico e sociale, il basso livello di occupazione complessivo e la condanna al lavoro precario dei giovani, anche ricorrendo a tutte le risorse private che il Paese possiede, significa proprio che non abbiamo capito niente delle forze che muovono il mondo globalizzato: il sapere e l’innovazione che, dovunque nel mondo, sono portati avanti soprattutto dai giovani.


di Nicola Cacace

domenica 31 luglio 2011

L'APPELLO

Sono giorni che alcuni uomini e donne stanno protestando, facendo lo sciopero della fame, contro l'abbandono dello Stato e delle Istituzioni.
Questa è una lettera da firmare e inviare ai rappresentanti politici.
Una lettera al Presidente Napolitano, prima tappa per una campagna nazionale: dare risposte ai cittadini lucani e pugliesi e cambiare la legge nazionale per garantire i diritti di tutti i cittadini italiani….


Al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano

e, p.c,

Al Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi

Al Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti



Caro Sig. Presidente,

apprendo che due gruppi di cittadini lucani e pugliesi (a Serramarina di
Metaponto ed a Marina di Ginosa) stanno tenendo un duro sciopero della fame dal
22 Luglio per denunciare che a 5 mesi dall’esondazione di ben 5 fiumi lo Stato

li ha abbandonati; Maria, Patrizia, Domenico, Adele, Ernesto ed Agostino sono
parte di una comunità ferita e sono organizzati in un Comitato democratico di
cittadini ed associazioni che ne difendono le ragioni ed hanno a cuore la difesa
del territorio

Da cinque mesi stanno denunciando la gravità della loro situazione: non hanno
alcuna ipotesi di risarcimenti e nel loro territorio ferito dalle alluvioni non
vengono eseguiti nemmeno gli interventi minimi di messa in sicurezza lasciando i
fiumi con gli argini sfondati, le infrastrutture stravolte ed esponendo le
comunità a nuovi disastri per le prossime piogge.

Lamentano che l’alluvione del 1° Marzo scorso che ha colpito le loro terre è
accaduta qualche giorno dopo l’entrata in vigore del decreto mille proroghe che
dal 26 febbraio 2011 modifica la legislazione vigente in materia di disastri
naturali, dunque sono i primi cittadini italiani a sperimentarne gli effetti.

Secondo questa nuova norma le Regioni dovrebbero “pagarsi i costi dei disastri
naturali” e lo dovrebbero fare “alzando le tasse regionali”. Diverse Regioni
hanno rifiutato l’idea di aumentare le tasse ai propri cittadini per pagarsi i
danni dei disastri naturali e contro questa norma si sono manifestati molti
pronunciamenti e da più parti politiche. Sette regioni italiane, fra cui la
Puglia e la Basilicata, hanno sollevato difetto di costituzionalità e la corte
costituzionale, si esprimerà il 10 Gennaio 2012.

Si è aperto, così, un conflitto istituzionale e politico che sta tenendo
bloccata la possibilità di avere risposte; il Governo non emette l’ordinanza
dovuta e, dunque, non sono possibili misure straordinarie necessarie, non è
possibile spendere risorse degli Enti locali comprese le Regioni per i noti
vincoli del patto di stabilità e non è possibile impostare un serio piano che
affronti le emergenze ed imposti la fuoriuscita dalla crisi.

I cittadini colpiti non possono attendere fino al prossimo anno, né pagare i
prezzi del contenzioso politico ed istituzionale quando questo lede diritti
fondamentali.

La garanzia che, in caso di disastro naturale, siano soddisfatti i diritti ai
risarcimenti per quanti sono stati colpiti ed alla messa in sicurezza è uno
degli elementi fondanti della tenuta stessa della solidarietà nazionale.

Dal primo marzo 2011, invece, questi diritti sono nei fatti negati per effetto
della norma contenuta nel decreto milleproroghe che lascia i cittadini in una
situazione ormai insostenibile ed umiliante per la loro stessa dignità. In
diversi ancora vivono in albergo o ospitati da amici e famigliari, le aziende
agricole che hanno perso la produzione, le scorte o gli impianti non possono
fare fronte agli impegni finanziari ed alle scadenze, le aziende turistiche
stanno affrontando la stagione in condizioni fortemente compromesse, i
lavoratori perdono il lavoro.

Soprattutto, però, se non si fanno urgentemente lavori di messa in sicurezza del
territorio, con gli argini dei fiumi sfondati e le infrastrutture indebolite, le
prossime piogge d’autunno porteranno inevitabilmente ben altri disastri.

Le chiedo di intervenire per garantire che le risposte siano date.

Occorre il primo passo, che è sempre stato adottato precedentemente dopo la
dichiarazione di stato d’emergenza: che sia emessa l’ordinanza da parte del
Presidente del Consiglio dei Ministri di nomina del commissario e di
stanziamento delle prime risorse per avviare il processo di intervento con
almeno le iniziative più urgenti. Le Regioni Basilicata e Puglia nelle more che
la corte costituzionale si esprima, hanno dichiarato la disponibilità ad
intervenire con proprie risorse se pur in maniera parziale e nei limiti delle
loro disponibilità.

A troppi mesi dal Primo Marzo 2011 non c’è più alcun motivo perché non si trovi
una soluzione per i cittadini ed il territorio e perché si risponda alle
aspettative della comunità ferita.

Per tutto questo, Le chiedo di intervenire perché si compiano i passi dovuti per
garantire i diritti dei cittadini colpiti dagli eventi del Primo Marzo scorso
ma, anche, perché voglia valutare la possibilità di richiamare l’attenzione del
Parlamento sulla necessità di intervenire con una modifica delle norme assunte
con il decreto milleproroghe del 2011 che cambiano la modalità degli interventi
in caso di dichiarazioni di stato d’emergenza.

Lo sciopero della fame in corso segnala, infatti, una grande questione nazionale
che riguarda tutti i cittadini italiani: se questi sono gli effetti del cambio
della norma voluta dal milleproroghe, allora in Italia quando accadranno frane,
alluvioni, terremoti i cittadini rimarranno senza risposte.

Con osservanza e stima,

Antonella Melillo




http://www.terrejoniche.net/?p=554#more-554




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martedì 28 giugno 2011

IL CORAGGIO DELLE DONNE:CONCITA DE GREGORIO

Nel segno della chiarezza



È trascorsa quasi una settimana dal giorno in cui insieme all’editore vi ho annunciato che avrei lasciato la guida dell’Unità e sento il bisogno di non far passare altro tempo per ringraziare tutti coloro che in questi giorni hanno scritto al nostro giornale e a me. Migliaia di persone alle quali non mi sarà possibile, se non in piccola parte, rispondere individualmente come vorrei: un’ondata di affetto che ci ha travolti fatta di messaggi, video, link su youtube, lettere di carta, persino telegrammi come si usava una volta, disegni di bambini, post su Facebook e poesie. Vecchie e nuove generazioni, ciascuna col suo linguaggio, ci hanno dato una testimonianza di calore e di stima per il lavoro di questi tre anni, per il cammino fatto insieme, che da sola giustifica le fatiche e l’impegno collettivo. Insieme alle lodi e all’affetto in molti hanno espresso qualche preoccupazione, domandato un supplemento di spiegazioni.

Come sapete non ho mai tenuto in conto, salvo che in rarissime e gravi eccezioni, gli attacchi scomposti della destra che sempre si qualifica da sola per quel che è con il suo carico di dossier fatti di voci anonime, lettere autoprodotte, falsi plateali spacciati per documenti, sussurri rancorosi assurti a verità e conditi nel caso specifico dell’opportuna dose di misoginia volgare. Anche questa volta non sono mancate le bordate ma d’altra parte lo sapete, viviamo ai tempi in cui Bisignani regna, non un appalto un incarico una quota di pubblicità si danno se non passano da quella regia e noi che ce ne siamo tenuti ben alla larga: anche per questo paghiamo pegno. Per non aver chinato la testa alle eminenze nere e ai signori degli affari. Il nostro giornale non porta quella macchia. Non è ai picchiatori e agli scherani del potere della destra che mi rivolgo dunque, naturalmente, ma a quanti fra i nostri lettori hanno espresso dubbi, chiesto rassicurazioni.

In primo luogo: questo giornale non conosce censure. Sotto la mia guida non ne ha subite da parte di alcuno, non ne ha esercitate. Capisco chi ci sia chi della persecuzione ha fatto la sua professione non avendo altro talento da spendere ma i fatti parlano: si può domandare a Marco Travaglio e a Claudio Fava, a Luigi De Magistris e a Sergio Staino, a don Filippo di Giacomo e a Lidia Ravera, a Francesca Fornario e Francesco Piccolo. Neppure i commenti sul web sono filtrati dalla moderazione: entrano tutti, in automatico. I nomi che ho citato esprimono sensibilità lontane tra loro, come vedete. Chi ha lavorato qui non ha mai subito pressione alcuna. Chi ha deciso di andare lo ha fatto per legittime aspirazioni professionali o economiche, in qualche caso perché ha avanzato richieste che non potevamo esaudire. Chi è arrivato, per contro, da Pippo Del Bono a Margherita Hack, da Michela Murgia ad Ascanio Celestini, da Nicola Piovani a Loretta Napoleoni lo ha fatto per passione, accettando quelle condizioni. Nessuna censura è stata mai esercitata su di noi, d’altro canto. Né da parte dell’editore né da parte del Partito Democratico.

Non sono mancate, lo abbiamo scritto con Renato Soru, critiche a questo o quel numero del giornale da parte di qualche dirigente, come ad ogni latitudine accade. Sono venute da tutte le componenti del partito il che è di per se una garanzia di equilibrio. D’altro canto moltissimi sono stati i riconoscimenti, personali e pubblici, degli esponenti di un partito che in questi tre anni ha cambiato tre volte segretario, ha affrontato le primarie e varie tornate elettorali con le tensioni che ne conseguono: hanno trovato costante spazio qui tutti coloro che hanno voluto esprimere il loro pensiero, dal preziosissimo Alfredo Reichlin che ci aiutato spesso a trovare la rotta ai più giovani dirigenti delle diverse anime del partito: Francesca Puglisi per la scuola e Stefano Fassina con Vincenzo Visco per l’economia, Livia Turco sui temi dell’immigrazione e Vittoria Franco su quelli delle donne, Ivan Scalfarotto e Paola Concia sulle diversità, Enrico Letta sulla politica e i diritti individuali, Sandra Zampa e Matteo Orfini, Sandro Gozi e Pietro Ichino, Pippo Civati e Susanna Cenni, moltissimi altri, tutti coloro che hanno voluto. Luigi Manconi ha portato il suo spirito libero. Goffredo Fofi la sua critica. Angelo Guglielmi i suoi libri. I più giovani, da Andrea Satta a Tobia Zevi ci hanno parlato del tempo in cui viviamo.

Nessuno può dunque credere che questo luogo libero e felice di incontro fosse ai suoi protagonisti sgradito a meno di non andare contro la logica e l’evidenza. Le tesi complottiste si spengono al cospetto dei fatti. I fatti sono che il nostro giornale ha attraversato due anni di stato di crisi, una ristrutturazione aziendale avvenuta all’unisono con quella di tutti gli altri grandi quotidiani, che ci ha costretti a lavorare in grande economia di mezzi e a chiedere alla redazione il sacrificio della cassa integrazione a rotazione per consentire ai più anziani di raggiungere il limite dell’età pensionabile, oltre il quale tutti quelli che lo desideravano sono stati mantenuti al lavoro con contratti di collaborazione. Nessuna delle energie storiche è andata dispersa. Al contempo però, e di questo ho parlato molte volte in pubblico e in privato con Susanna Camusso, la legge che regola le ristrutturazioni aziendali prevede che per prima cosa cessino i contratti flessibili, a tempo indeterminato.

L’Unità non ha mai licenziato nessuno, in questi tre anni: semplicemente, in base alla legge, non ha potuto rinnovare i contratti atipici che come ciascuno sa sono quelli con cui negli ultimi anni sono stati assunti tutti i più giovani. È una normativa che penalizza le generazioni in entrata e tende a creare conflitti generazionali. Nell’anno in cui abbiamo potuto farlo abbiamo firmato contratti a termine a ragazzi che hanno avuto qui una tribuna che li ha portati, in base alle loro capacità e ai loro talenti, ad ottenere in seguito interessanti e prestigiosi incarichi. Moltissimi di loro, anche molti tra i collaboratori, ce ne rendono in questi giorni atto. Alle parole e alle denunce di chi non conosco non posso rispondere.

È falso che abbiamo chiuso le cronache locali, al contrario ho messo le mie dimissioni sul tavolo nel momento difficile della discussione sulle edizioni di Firenze e Bologna, che sono state rilanciate sotto la regia di Pietro Spataro. Così come ho combattuto per le sostituzioni maternità che abbiamo coperto, sempre, tutte.

Ora che il ciclo si è chiuso, al 31 maggio la faticosissima stagione della Cig è finita, il giornale è pronto per un rilancio. A ciascuno la sua stagione. Io credo di aver portato il lavoro sin qui, con l’aiuto di Giovanni Maria Bellu di Luca Landò e della redazione intera, in condizioni di mare in tempesta. Credo anche che l’investimento fortemente voluto dall’editore sul web, che ha quintuplicato il suo traffico – 150 mila amici su Facebook, un luogo che si chiama ComUnità straordinario e vivacissimo, punte di due milioni di utenti unici – sia stato ancora una volta un esempio di quanto l’azienda e la redazione siano state capaci di trasformare le difficoltà in opportunità, guardando lontano.

Io credo che oggi - e le mobilitazioni degli ultimi mesi, i risultati delle amministrative e dei referendum ci danno ragione – sia davvero cambiato il tempo e sia quello il luogo dove ha senso proseguire una battaglia di rinnovamento del Paese. Anche quello. Credo che sia legittimo che io vi dica che le vecchie logiche spesso non offrono più le condizioni di libertà e di autonomia che le nuove generazioni a buon diritto pretendono. Che in questo momento di transizione verso il futuro, insieme alla conservazione di un patrimonio storico – quello che abbiamo traghettato sin qui, insieme al suo archivio centenario, portandolo nel presente – ci sia bisogno che chi ha forze e passione per farlo investa in nuove scommesse, come dico da tempo. Lavorare all’Unità è stato un privilegio, questi anni un investimento che ci ha portati dove voi eravate: proviamo per una volta a non demolire ciò che abbiamo costruito, ad avere rispetto del giornale e di noi stessi, a non farci distrarre dalle grida di chi – debole e ormai alla fine – vorrebbe trascinarci nella polvere con sé. La nostra forza è quella che gli altri non conoscono e non sanno decifrare: la disinteressata passione, la trasparenza di chi non è in vendita, il coraggio di rischiare.
24 giugno 2011

lunedì 27 giugno 2011

Ricerca Swg indagine sulla condizione operaia in Italia Indagine di Swg per il Partito Democratico sul lavoro: analisi del quadro socio-anagrafico, delle condizioni di lavoro e dei riflessi dovuti alla crisi economica

pubblicato il 17 giugno 2011

Il quadro socio-anagrafico

La ‘società operaia’ è prevalentemente maschile in quanto gli uomini risultano essere il doppio delle donne. Vale la pensa segnalare alcune differenze in base al genere:

- Le donne operaie sono presenti soprattutto nei servizi, 73% dei casi contro un 38% di uomini che lavorano invece prevalentemente nell’industria (39%) o nel settore costruzioni (18%) dove non si registra una presenza femminile di rilievo
- la presenza operaia femminile risulta sottomedia nelle regioni del mezzogiorno dove raggiunge il 20%, contro un 57% impiegata al Nord. Gli operai maschi nelle regioni meridionali sono invece il 30%.
- Il 64% delle donne ha una qualifica di operaio comune (contro il 28% degli uomini) e solo il 26% risulta specializzato.
- La metà del campione svolge le proprie mansioni all’interno di una fabbrica (quota probabilmente inferiore di qualche punto percentuale rispetto alla distribuzione reale) e all’interno di tale segmento risulta prevalente la componente maschile (73% contro il 27% di donne)
- Non si segnalano invece significative differenze di genere per quanto riguarda la tipologia contrattuale e oltre l’80% ha un contratto a tempo indeterminato

L’età media di inizio lavoro è intorno ai 19 anni: la maggioranza dichiara di aver iniziato tra i 15 ed i 18 anni (42%) in particolare hanno incominciato presto coloro che sono impiegati nel settore edile (63%). La media si abbassa a 17 anni per gli over 55 dove il 41% dichiara di esser andato a lavorare prima dei 15 anni. La scolarizzazione obbligatoria delle generazioni successive ha elevato l’età d’inizio, infatti per il 48% dei più giovani la soglia si innalza tra i 19 ed i 25anni.

Le condizioni di lavoro

Le ore medie di lavoro sono intorno alle 37 ore settimanali: 39,3 per i maschi e 32,7 per le donne, 38,4 per chi lavora in fabbrica e 35,8 per chi è impiegato in altre strutture. La retribuzione media mensile (1.100 euro) registra uno scarto di 380 euro tra uomini e
donne e di altrettanto tra operai comuni e specializzati.

Chi lavora in fabbrica guadagna mediamente quasi 200 euro più di chi non vi lavora e altrettanto consistente è lo scarto tra quanti sono impiegati nelle piccole aziende dove lo stipendio è inferiore ai 1000 euro e quanti operano in aziende con più di 250 addetti dove lo stipendio medio è di quasi 1200 euro.

In un terzo dei casi è prevista la possibilità di un contratto integrativo aziendale: a godere di questo trattamento sono il settore industriale (40%), le aziende di grandi dimensioni (55%), quelle del Nord (37%, solo 29% nel mezzogiorno) gli operai specializzati (41%) e quanti lavorano in fabbrica (43%).

La percentuale di quanti percepiscono una quota aggiutiva di salario risulta pari al 30% evidenziando anche in questo caso significative differenze sia di genere (35% gli uomini contro il 21% delle donne), che di settore (40% tra coloro che lavorano nell’industria) sia in relazione alle dimensioni dell’azienda (42% nelle aziende più grandi contro il 22% delle piccole). In poco più della metà dei casi la quota aggiuntiva è il frutto di una trattativa azienda-sindacati. Si tratta di una formula utilizzata principalmente nelle aziende mediograndi con più di 50 dipendenti (68%) e in quelle di grandi dimensioni (82%).

A trovare invece la cifra inserita in busta paga, a mo’ di cadeau, senza alcuna contrattazione (30%) sono soprattutto le donne (42%), coloro che lavorano nelle aziende più piccole (64%) e gli operai comuni, non qualificati.

L’ammontare medio annuale della retribuzione accessoria è pari a 277 euro che diventa 300 per gli uomini e 200 per le donne. Praticamente non esiste per chi lavora nel settore agricolo, raggiunge i livelli più alti nell’industria (circa 330 €) ed i più bassi nel settore costruzioni (128€). Gli operai qualificati sono quelli che riescono a portare a casa il premio più alto che si aggira intorno ai 337 €. La maggioranza degli interpellati ritiene comunque che la retribuzione aggiuntiva, poiché premia il merito del singolo, andrebbe trattata a livello individuale e non collettivo (41%). A sostenerlo sono soprattutto coloro che avendo una specializzazzione hanno anche la possibilità di performance migliori (48%), si aggiungono a questi anche gli operai delle piccole aziende (49%), quelli dell’industria (44%) ed i giovani under 35 (45%).

La valutazione delle condizioni lavorative attuali fa sì che 3 intervistati su 4 si dichiarino soddisfatti del proprio lavoro, soddisfazione che cresce proporzionalmente al livello di specializzazione: dal 67% di operai comuni a cui piace il proprio lavoro si passa all’ 80% di quelli specializzati. Il gradimento appare maggiore tra coloro che non lavorano in fabbrica ed è più
accentuato tra quanti svolgono le loro mansioni nel settore agricolo (86% contro il 71% dell’industria). Non sempre soddisfazione e benefici economici vanno però di pari passo e anche se il lavoro piace, quasi la metà degli operai vorrebbe poter contare su un reddito più elevato.

Le aspettative della categoria sono rivolte non tanto ad ottenere un maggior riconoscimento sociale o gratificazione personale, quanto a migliorare il livello economico (48%) e, in seconda istanza, a poter contare su una maggior sicurezza per il futuro (27%). La necessità di un incremento di reddito appare prioritaria soprattutto per le donne, gli operai del Nord, quanti lavorano nei servizi e svolgono le loro mansioni nelle grandi aziende e godono di contratti a tempo indeterminato. I lavoratori del settore agricolo e delle costruzioni, gli atipici - proprio per le condizioni di precarietà o instabilità che contraddistinguono il contratto o il settore cui appartengono - preferirebbero invece poter contare su maggiori garanzie future.

La percezione di quella che è la propria condizione economica familiare fa emergere un quadro in cui solo un terzo dichiara di trovarsi in una condizione di serenità e decisamente piccola è la quota di quanti possono permettersi di definire agiato il proprio status (3%). La metà sostiene di vivere economicamente in una condizione di precarietà mentre appare preoccupante il segmento, pari al 15%, che si percepisce addirittura indigente. Date queste premesse non stupisce che le richieste di miglioramento economico provengano soprattutto da coloro che versano in condizioni difficili di precarietà o indigenza (55%). Per contro chi ha un bilancio familiare più sereno può guardare avanti, permettersi di pensare al futuro o alle gratificazioni professionali.

Solo il 30% del campione gode della soddisfazione di svolgere un lavoro qualificato le cui esperienze sono riconosciute. Si tratta di un privilegio di cui godono prevalentemente gli uomini più che le donne (36% contro 22%), coloro che lavorano nelle costruzioni (61%) ed in aziende di piccole (40%) e medie (41%) dimensioni e gli operai qualificati (40%). E mentre un 27% ha un lavoro che non richiede particolari capacità e competenze, il 43% impiega esperienze professionali che spesso non vengono riconosciute. All’interno di questo segmento troviamo le risposte di operai del settore agricolo (51%), specializzati (48%) e impiegati nella grande industria (54%).

Il 61% del campione si dichiara tranquillo per quanto concerne la sicurezza lavorativa (molto+abbastanza).A sostenerlo sono soprattutto gli operai del Nord (67%), coloro che operano nei servizi (68%), in fabbrica (65%), operai qualificati e specializzati (69 e 65%) e quanti hanno un contratto a tempo indeterminato (67%).

Tuttavia non è affatto marginale la quota di quanti sentono di non poter contare sulla sicurezza dell’impiego. Si tratta infatti del 39% della categoria, che evidenzia le sacche di insicurezza più profonde tra gli operai over 55 (46%), tra quelli delle regioni del centro sud (50-45%), tra quanti lavorano nei settori agricolo (62%) e nelle costruzioni (57%), tra gli addetti delle piccole aziende (52%) e ovviamente tra coloro che hanno contratti a tempo determinato (59%) o sono atipici (79%). Tale senso di insicurezza oltre che su condizioni oggettive – difficoltà aziendali o contratti precari – fonda le sue radici in un generale senso di incertezza e sulla convinzione della generale scarsa sicurezza di tutti i posti di lavoro (46% pari al 18% del campione).

I timori che investono la categoria rispetto alle prospettive future si incentrano sia su tematiche più a lungo termine quali l’angoscia di non poter usufruire di una pensione adeguata (36%) sia su questioni più contingenti legate alla paura di perdere il posto di lavoro e di conseguenza il reddito (52%).

Sono soprattutto gli operai del settore agricolo ad essere preoccupati dell’adeguatezza della loro pensione (55%) così come lo sono coloro che sono più vicini a momento di ritiro dal lavoro come gli over 55 (56%). La paura di perdere il lavoro e di conseguenza non poter contare sulla continuità del reddito risulta invece più marcata tra gli operai del settore edile (68%) e tra i
lavoratori atipici.

La crisi economica



Il giudizio sulla crisi rivela le forti preoccupazioni della settore: il 93% la considera grave (molto +abbastanza) e la valutazione appare trasversale a tutti i settori e categorie. Secondo gli operai quasi 7 aziende su 10 hanno risentito gli effetti della crisi economica, che ha investito con maggior violenza le fabbriche e le aziende di dimensioni medio piccole e tutti i settori, anche se i servizi sembrano averne risentito meno degli altri (59%).

Più della metà dei lavoratori ha subito dei disagi a seguito della crisi, in particolare coloro che lavorano in fabbrica, nei settori dell’industria e delle costruzioni, gli uomini più delle donne, e quanti vivono e lavorano nelle regioni del mezzogiorno.
La principale conseguenza è stato un periodo di cassa integrazione (22%) che ha colpito soprattutto gli uomini (28%), i lavoratori dell’industria (38%) e delle costruzioni (42%) e quanti lavorano in fabbrica (32%) e gli addetti delle aziende di grandi dimensioni (28%); non si registrano invece differenze significative a livello territoriale a segnale che la crisi si è spalmata
con uguale intensità in tutte le regioni.

Fermo restando che secondo quasi la metà degli intervistati (47%) le aziende hanno usato la crisi per risolvere problemi preesistenti, il giudizio sulla capacità di risposte alla crisi salvano le aziende ma non i sindacati. Infatti mentre la maggioranza dichiara che l’azienda ha risposto bene alle difficoltà sorte con la crisi (72% molto + abbastanza bene), solo un terzo valuta positivamente quanto hanno fatto i sindacati. Particolarmente duro il giudizio fornito da chi opera nel settore agricolo (69% male) e nell’industria (60%).

Senza soldi non ci sono indipendenza, libertà, dignità per i giovani: guai a confondere il lavoro col volontariato

Intervento di Eleonora Voltolina alla Coferenza Nazionale per il Lavoro del PD

pubblicato il 17 giugno 2011



Oggi vengo a parlarvi di soldi – di quei soldi che i giovani italiani non vedono, perchè incastrati in quello che è stato definito il lavoro low cost. stageE vi parlo di soldi partendo da un articolo della nostra Costituzione, il numero 36, che dice che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa». La dignità è un concetto che più volte è emerso nel corso di questa giornata di convegno; ma i giovani italiani spesso lavorano percependo retribuzioni al di sotto della soglia di dignità, o non percependone affatto. Il lavoro così viene confuso con il volontariato, una sovrapposizione gravissima e molto pericolosa. In particolare la Repubblica degli Stagisti monitora la fase di passaggio dalla formazione al lavoro: per inquadrare il problema, si calcoli che ci sono in Italia oggi circa 500mila stagisti all’anno, e un numero di praticanti non ben definito ma superiore a 100mila, forse 200mila, forse addirittura 300mila. In oltre la metà dei casi non percepiscono un euro di rimborso spese.

Vi sono poi i giovani inquadrati come lavoratori autonomi: quelli che lo sono davvero, i professionisti, spesso guadagnano meno di 10mila euro all’anno, un dato emerso da una recente indagine Ires. E poi ci sono gli autonomi che mascherano lavoro dipendente: falsi cocopro e false partite Iva, che oltre che sottoinquadrati sono nella maggior parte anche sottopagati.
Con quale risultato? Che i giovani pesano sulle famiglie, alimentando un circolo vizioso che azzera il conflitto generazionale. Conflitto che, anche se qualcuno la pensa diversamente, molte volte è utile anzi indispensabile per permettere ai figli di fare scelte per conto proprio, perfino in contrasto con i genitori. Basti pensare a chi sogna di fare un mestiere che i genitori non approvano: se si è costretti a farsi mantenere dai genitori, quelli avranno sempre voce in capitolo in ogni scelta, e non sarà facile porsi in contrasto con chi paga affitto e bollette. Un cordone ombelicale che impedisce ai giovani di diventare adulti. Il fatto che dipendano così a lungo dalle loro famiglie ricrea tra l’altro una sorta di classismo, blocca la mobilità sociale; solo chi ha una famiglia abbiente alle spalle può infatti permettersi lunghi anni di gavetta non pagata, o pagata pochissimo. Quelli che non hanno la famiglia a sostenerli, finisce spesso che debbano abbandonare i propri sogni professionali.

Senza soldi, senza autonomia economica, non c’è nemmeno quella libertà di cui parla la Costituzione. stageLe magre prospettive di reddito che i giovani italiani vedono stagliarsi all’orizzonte producono conseguenze nefaste. Innanzitutto la fuga dei cervelli, perchè all’estero gli stipendi sono più alti, e quindi tanti giovani emigrano. Poi la disillusione: i risultati di un sondaggio realizzato da Termometro Politico e presentato la settimana scorsa a Italia 110, un altro evento del PD, sono drammatici perchè tratteggiano un profilo di giovani terrorizzati, senza più alcuna fiducia nel futuro: ultraconservatori, senza la minima propensione a quel rischio che invece dovrebbe essere la naturale caratteristica della loro età. Fino alla conseguenza più preoccupante: il freno a mano tirato sulla costruzione di una vita autonoma. Giovani in casa dei genitori fino a trent’anni, che non riescono a farsi una famiglia, a mettere al mondo dei figli, creando una spaventosa denatalità di cui tra qualche anno tutto il Paese subirà le conseguenze.

E allora, i soldi: si riparta dai soldi. Per quanto riguarda lo stage, considerando il fatto che oltre la metà non viene pagata, noi ormai più di due anni fa abbiamo lanciato la nostra Carta dei diritti dello stagista, il manifesto di come dovrebbe essere un buono stage, prevedendo fra i punti fondamentali quello di un dignitoso rimborso spese. E piano piano, finalmente, anche altri soggetti sono andati nella stessa direzione: la Cgil con la sua campagna «Giovani non + disposti a tutto», con uno spin-off tematico sugli stage dal titolo «Non + stage truffa». Il senatore Pietro Ichino che nella sua proposta Codice del lavoro in 70 articoli ne ha dedicato uno alla regolamentazione dello stage. Il ddl Damiano, presentato pochi mesi fa alla Camera, che si propone di riordinare la materia di stage e tirocini e introduce, sul modello della normativa francese, un compenso minimo di 400 euro al mese. La Regione Toscana, che proprio qualche giorno fa ha presentato nell’ambito del progetto «Giovani sì» una misura specificamente destinata agli stagisti, anche qui prevedendo un emolumento minimo di 400 euro, di cui 200 li metterà la Regione ma altri 200 i soggetti ospitanti. E poi le promesse fatte in campagna elettorale da due neosindaci, Fassino e Pisapia: il primo in maniera più soft, il secondo con promesse specifiche, si sono impegnati a rivoluzioneranno la gestione dei tirocini all’interno dei propri Comuni, introducendo un rimborso spese. La Repubblica degli Stagisti controllerà che mantengano le promesse.
Anche perchè è importante, importantissimo che il pubblico dia il buon esempio. Se invece è la pubblica amministrazione la prima a comportarsi malamente con i suoi stagisti, comprensibilmente l’impresa privata si sentirà autorizzata a fare altrettanto. Faccio solo un riferimento flash al caso dell’Inps e dell’Avvocatura dello Stato che non pagano i giovani che fanno la pratica forense nei loro uffici legali: dal 1° al 24° mese questi praticanti non ricevono un euro, e questo malgrado il Codice deontologico forense prescriva chiaramente che ogni avvocato sarebbe tenuto a erogare al praticante un compenso commisurato all’apporto che il giovane fornisce allo studio. Proprio gli enti pubblici violano i codici deontologici.
stageQuindi, i soldi. Una giusta retribuzione come primo tassello per un riequilibrio generale dell’occupazione. E anche però incentivi fiscali per l’imprenditoria giovanile, e sgravi per i lavoratori autonomi con redditi bassi. Bisogna proteggere i giovani dallo sfruttamento, introducendo un salario minimo per i lavoratori sul modello del minimum wage anglosassone, o dello Smic francese: sono contenta di aver sentito stamattina Stefano Fassina [foto], nella relazione introduttiva di questo convegno, dire chiaramente che questi punti sono parte integrante del Progetto nazionale per l’occupazione giovanile e femminile, che il PD si impegna a sostenere. Personalmente sono anche convinta della necessità di lavorare per la realizzazione dell’idea di contratto unico proposta da Ichino.

L’altra faccia della medaglia del lavoro low cost è la necessità di applicare la massima severità nei confronti di chi sfrutta, e si avvale di lavoro gratuito o semigratuito. Perchè purtroppo una legge che prescriva delle regole ma senza introdurre una sanzione in caso di violazione, derubrica immediatamente quelle regole al rango di meri suggerimenti. Bene quindi, in questo senso, di nuovo il ddl Damiano, che introduce sanzioni per chi viola la normativa sullo stage: per le violazioni più lievi prevedendo lo stop temporaneo alla possibilità di accogliere stagisti, per quelle più pesanti obbligando ad assumere lo stagista con un contratto di apprendistato, che è appunto il contratto giusto per la formazione-lavoro. Bene anche la Regione Toscana, che ha basato il suo progetto su un protocollo, condiviso con le parti sociali, per tirocini di qualità. Ma sopratutto è necessario guarire i datori di lavoro, pubblici o privati che siano, dalla miopia: bisogna far capire che sfruttare i giovani, puntare tutta la propria politica sulla riduzione del costo del lavoro, non conviene! Basta con l’ipocrisia della «formazione»: il tempo e l’impegno vanno sempre pagati.
Chi osteggia il cambiamento obietta: ma così ci saranno meno posti di stage, meno posti di lavoro. Forse è vero. Ma si può continuare a barattare la qualità con la quantità? Vogliamo dieci stage gratuiti o tre stage ben pagati? Vogliamo dieci contratti a progetto da 600 euro al mese, o quattro pagati 1.500? Io ho scelto, la Repubblica degli Stagisti ha scelto. Nella convinzione che poi non sia nemmeno sicuro che i posti diminuirebbero in maniera così evidente: perchè prima o poi tutti capirebbero che farsi concorrenza sul costo del lavoro è una scelta strategicamente perdente.

Solo con dignitose retribuzioni fermeremo l’emorragia di cervelli, attiveremo un sano e ormai imprescindibile ricambio generazionale, rispetteremo la Costituzione. E daremo un futuro alle nuove generazioni.

Eleonora Voltolina

Proposte di legge - Camera Misure a sostegno della genitorialità, della condivisione e conciliazione familiare, nonché disposizioni in materia di modalità per la risoluzione del contratto di lavoro per le dimissioni volontarie del prestatore d'opera Schema del nuovo ddl sulla maternità del Partito Democratico

Pubblicato il 25 giugno 2011 , 130 letture


[Intendiamo proporre un insieme articolato di misure per la valorizzazione del contributo delle donne alla vita economica e sociale del Paese, incidendo sul sostegno alla maternità ed alla conciliazione familiare, presupposto indispensabile per garantire la promozione dell’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro e la crescita del Paese.

Il lavoro, per le donne come per gli uomini, e' garanzia di autonomia, di indipendenza, per tanti e realizzazione di sé. La attuale difficile congiuntura economica e la precarietà del lavoro pongono troppo spesso le donne giovani di fronte al bivio scegliere tra maternità e lavoro. Il diritto alla maternità passa ancora attraverso la conciliazione con il lavoro.
L’innalzamento del tasso di occupazione femminile è, inoltre, una priorità su cui impegnarsi per elevare il potenziale di crescita e per garantire una più equa ripartizione delle risorse pubbliche, anche in funzione della sostenibilità futura dei sistemi previdenziale e di protezione sociale.

Nel 2010 l'occupazione femminile si attesta intorno al 46 per cento, 12 punti percentuali in meno di quello medio europeo. E’ peggiorata la qualità del lavoro, cresce il part-time frutto però di una scelta quasi interamente involontaria, le donne si ritrovano spesso a fare lavori che richiedono una qualifica più bassa rispetto a quella posseduta, guadagnano meno degli uomini
La difficile situazione del Mezzogiorno spiega buona parte delle distanze tra Italia ed Europa: sono circa 3 su 10 le donne occupate nel Mezzogiorno contro le quasi 6 nel Nord; il tasso di inattività si attesta al 63,7 per cento (39,6 per cento nel Nord) e il tasso di disoccupazione e' oltre il doppio di quello delle donne del Nord (15,8 rispetto a 7,0). Nel 2009 più di un quinto delle donne con meno di 65 anni che lavorano o hanno lavorato ha interrotto l'attività lavorativa per il matrimonio, una gravidanza o altri motivi familiari. La quota sale al 30 per cento tra le madri e nella meta' dei casi l'interruzione è dovuta alla nascita di un figlio.
La bassa partecipazione al lavoro delle donne appare direttamente correlata al minimo accesso delle famiglie italiane ai cosiddetti "aiuti formali", quali asili e servizi di assistenza, a fronte di una prevalenza degli "aiuti informali". Secondo le rilevazioni ISTAT solo due bambini su dieci frequentano un asilo nido pubblico o privato. Questo dato medio, peraltro, sconta – ancora una volta – una forte differenziazione territoriale, nascondendo la drammatica condizione dei servizi per l’infanzia nel Mezzogiorno. I bambini che frequentano un nido pubblico sono solo il 7 per cento nel Mezzogiorno, a fronte del 17 per cento al Nord e del 14 per cento al Centro.

Inoltre, secondo le rilevazioni ISTAT sulle giovani donne relative agli anni 2009-2010, il tasso di occupazione delle donne tra i 18 e i 29 anni è pari al 35,4 per cento contro il 48,6 per cento dell'occupazione maschile, 13 punti in meno. Per chi è in possesso di diploma, la differenza di genere nei tassi di occupazione rimane elevata (50,8 per cento contro 37,2 per cento). Le giovani donne hanno più frequentemente un lavoro a tempo determinato (34,8 per cento contro 27,4 per cento), mentre la percentuale di donne giovani in part time è tripla rispetto a quella maschile (31,2 per cento contro 10,4 per cento) e si mantiene elevata anche per le laureate (24,1%).
Il fenomeno del sottoutilizzo della forza lavoro femminile è in continuo aumento negli ultimi anni: si passa dal 28,5 per cento del 2005 al 31,7 per cento del 2007 per arrivare al 33,8 per cento del 2009.
Infine, il divario tra i due generi si accentua tra i giovani che hanno una famiglia propria: in questo caso, la durata del lavoro familiare è pari a 5 ore e 47 minuti per le donne, contro 1 ora e 53 dei coetanei maschi; a ciò va aggiunto che le donne svolgono almeno un’attività di lavoro familiare nel 98,6% dei casi, a fronte del 52% dei coetanei.

Per rispondere ai problemi delineati dai suddetti dati prevediamo un pacchetto di misure finalizzato al potenziamento degli strumenti di tutela della maternità e paternità di protezione sociale di base, di tutela dalle discriminazioni correlate alla maternità, di rafforzamento alla condivisione dei ruoli familiari, al potenziamento dei servizi di sostegno alla genitorialità, da introdurre progressivamente, insieme alle misure già oggetto di altre proposte in materia di al rafforzamento delle prestazioni sociali e assistenziali in favore delle famiglie con figli.

Affermare il diritto alla maternità contro ogni discriminazione

Secondo l’ISTAT dopo una gravidanza il 15% delle donne si vede costretta a lasciare il lavoro. Nella loro vita 800 mila madri (pari all'8,7 per cento delle donne che lavorano o hanno lavorato) hanno dichiarato di essere state licenziate o messe in condizione di doversi dimettere a causa di una gravidanza. Le cause sono certamente molte, ma il dato propone l’urgenza di reintrodurre la normativa in materia di contrasto del cosiddetto fenomeno delle "dimissioni in bianco" inserita nel nostro ordinamento con la legge 17 ottobre 2007, n. 188, e prontamente abrogata, a pochi mesi dalla sua entrata in vigore, dal Governo Berlusconi con l'articolo 39, comma 10, lettera l), del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112( convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133).
La richiesta di "dimissioni firmate in bianco" al momento dell’assunzione, ovvero nel momento in cui il rapporto di forza tra i contraenti è a favore del datore di lavoro, è una pratica vessatoria che mette la lavoratrice e il lavoratore nell’impossibilità di far valere i propri diritti e la propria dignità, pena la certezza di un licenziamento in tronco, ammantato dalla finzione della volontarietà.
Tale pratica riguarda in particolare le donne, ma non è un fenomeno esclusivamente di genere ed è legata anche a fenomeni fiscali: si usa per esempio al fine di sgravare l’impresa dal pagamento dei periodi di assenza dal lavoro per imprevisti quali infortuni o malattia.
I dati forniti dallo stesso Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali relativi al numero delle donne che si dimettono volontariamente nel primo anno di vita del bambino devono far riflettere e interrogare soprattutto sulla effettiva volontarietà delle dimissioni: sono state quasi 18.000 nel solo 2009.
Occorre neutralizzare questa prassi, vincolandola validità della dichiarazione di dimissioni volontarie all’utilizzo di appositi moduli, contrassegnati da codici alfanumerici progressivi e da una data di emissione che garantiscano la loro non contraffazione, e al tempo stesso l’utilizzabilità solo in prossimità della effettiva manifestazione della volontà del lavoratore di porre termine al rapporto di lavoro in essere. Al fine di snellire le procedure burocratiche i moduli saranno disponibili, oltre che presso le DPL e gli URP anche per via telematica.

Affermare concretamente il valore della maternità, tutelata come diritto individuale e come valore sociale collettivo • innalzare l’assegno di maternità, finanziato dalla fiscalità generale, a tutte le madri, indipendentemente dalla condizione lavorativa, per un periodo complessivo massimo di cinque mesi, parificandolo all’importo attuale dell’assegno sociale, ciò al fine di assicurare la possibilità di accedere alla maternità a tutte le donne senza incorrere nel rischio di povertà assoluta.

• per tutte le lavoratrici impiegate in qualsiasi forma di lavoro, dipendente, autonomo, parasubordinato, innalzare l'indennità giornaliera di maternità dall'80 per cento al 100 per cento della retribuzione per tutto il periodo del congedo obbligatorio di maternità. Tale indennità verrà coperta fino a concorrenza dell'importo dell'assegno "universale" di cui al comma precedente dalla fiscalità generale e per la restante parte, fino a concorrenza del cento per cento dell'importo della retribuzione (accertata o convenzionale) dell'ultima mensilità lavorata, dai contributi versati presso l'assicurazione obbligatoria di riferimento. In tal modo, saranno significativamente ridotti gli oneri a carico dei datori di lavoro e delle lavoratrici stesse, legati al versamento dei contributi assicurativi a copertura del congedo obbligatorio per maternità che, ancora oggi, costituiscono un forte deterrente all'occupazione delle donne. Si garantirà anche piena tutela alle lavoratrici evitando flessioni retributive che a loro volta possono condizionare la scelta della genitorialità.

Promuovere la condivisione della genitorialità e della cura • introdurre per i padri lavoratori l’astensione obbligatoria dal lavoro per un periodo di quindici giorni da usufruire entro tre mesi dalla nascita del figlio, coperta da una indennità giornaliera pari al 100 per cento della retribuzione, in linea con gli ultimi orientamenti espressi a livello comunitario.

• Potenziare i congedi parentali, garantendo ai padri e alle madri l’accesso ai congedi parentali fino al terzo anno di vita del bambino, assistiti da un’indennità pari al 100 per cento della retribuzione, per i redditi fino a 35.000 euro per una famiglia di tre componenti. Tale limite è rimodulato al rialzo per le famiglie più numerose, sulla base dell’indicatore di situazione economica equivalente (ISEE). Per gli altri lavoratori, con redditi più alti, l’indennità è comunque elevata dal 30 per cento attuale al 50 per cento della retribuzione.

• Progressivo incremento delle detrazioni fiscali riconosciute alle donne per le spese di cura sostenute per i figli o per congiunti non autosufficienti.


Equiparare le tutele di tutte le forme di lavoro

La molteplicità delle forme di prestazione che caratterizza oggi il mercato del lavoro e lo connota fortemente in termini di precarietà richiede che, anche nella condizione di maternità e paternità, siano equiparate le tutele previste per le lavoratrici ed i lavoratori dipendenti e per le lavoratrici e per i lavoratori parasubordinati.
Come è noto, infatti, nonostante con il decreto ministeriale del 12 luglio 2007 ("Applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 17 e 22 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, a tutela e sostegno della maternità e paternità nei confronti delle lavoratrici iscritte alla gestione separata") il congedo di maternità sia stato esteso anche alle lavoratrici iscritte alla Gestione Separata, restano comunque delle differenze importanti tra le lavoratici iscritte alla Gestione separata e quelle dipendenti sotto il profilo della tutela della maternità.
Il congedo di maternità e di paternità spetta oggi alle lavoratrici ed ai lavoratori parasubordinati solo se in possesso di almeno tre mesi di contribuzione nella gestione separata nei dodici mesi precedenti l’inizio del congedo di maternità, purché non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie.
Inoltre, in caso di congedo di maternità obbligatoria per le lavoratrici parasubordinate l’indennità è calcolata, per ciascuna giornata del periodo indennizzabile, in misura pari all'80% di 1/365 del reddito derivante da attività di lavoro a progetto o assimilata, percepito negli stessi dodici mesi presi a riferimento per l’accertamento del requisito contributivo.
Infine, alle lavoratrici e lavoratori parasubordinati, in qualità di lavoratori a progetto e categorie assimilate (lavoratori coordinati e continuativi) non iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria e non pensionati, spetta una indennità per congedo parentale, per un massimo di 3 mesi entro il primo anno di vita del bambino, periodo di tempo decisamente inferiore a quello spettante ai lavoratori ed alle lavoratrici dipendenti (pari ad un periodo complessivo tra i due genitori non superiore a 10 mesi, aumentabili a 11, fruibili anche contemporaneamente, entro i primi 8 anni di vita del bambino).

Mamme autonome e imprenditrici

Per le stesse ragioni di articolazione amplissima delle forme di impiego, occorre intervenire rafforzando anche i sistemi di tutela sociale della maternità delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici, riconoscendo contribuzione figurativa, totale o parziale, alle lavoratrici autonome in maternità, per un periodo corrispondente a quello di astensione obbligatoria delle lavoratrici dipendenti (cinque mesi), con l’estensione alle stesse fattispecie e modalità di astensione anticipata per gravidanza a rischio, di cui all’articolo 17 del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151. Con specifico riferimento alle piccole e micro imprese, è riconosciuta la possibilità di sostituzione in caso di maternità delle lavoratrici autonome anche con familiari della lavoratrice stessa, come individuati ai sensi dell’articolo 230-bis del codice civile, o con i soci partecipanti all’impresa, anche attraverso il riconoscimento di forme di compresenza della lavoratrice e del suo sostituto.

Un “nido” per tutti

Si prevede il rifinanziamento del piano nazionale per gli asili nido, già messo in campo dal Governo Prodi nel 2007 ed annullato dal Governo Berlusconi. Lo scopo manifesto è ampliare l’offerta educativa del nido d’infanzia, anche attraverso l’integrazione fra diverse offerte di servizio, per dare ulteriori risposte ai diritti e alle esigenze dei bambini e delle famiglie. Viene quindi previsto un aumento del numero di asili nidi su tutto il territorio nazionale finalizzato a raggiungere l’obiettivo europeo del 33%, con particolare riguardo al mezzogiorno.
A completamento delle misure per il potenziamento dei servizi all’infanzia, si dispone un incremento delle risorse stanziate per l’attuazione del piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi, nella misura di 100 milioni di euro per il primo anno e di 200 milioni di euro l’anno per i successivi quattro anni, al fine di conseguire l’obiettivo di assicurare entro cinque anni la copertura del servizio di asili nido su tutto il territorio nazionale per almeno il 25 per cento dei bambini tra zero e tre anni, in attuazione degli obiettivi di copertura territoriale fissati dal Consiglio europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000.

venerdì 24 giugno 2011

Il ruolo delle donne nell’evoluzione del Servizio sanitario nazionale, prima Conferenza nazionale

"Il contributo che le donne hanno fornito e forniscono alla Sanità italiana nel suo complesso è determinante. Le donne impiegate nel Servizio sanitario Nazionale nel 2009 hanno raggiunto il 63% circa, anche se solo il 18% ricopre posizioni apicali". Lo ha detto il Ministro della Salute Ferruccio Fazio intervenendo, insieme al Sottosegretario On. Francesca Martini, alla prima Conferenza nazionale “Il ruolo delle donne nell’evoluzione del Servizio Sanitario Nazionale. Da Maria Montessori ai giorni nostri”, tenutasi a Roma, sella sede ministeriale di Via Ribotta, in occasione dell'8 marzo.

Nel corso della Conferenza, organizzata dalla Direzione Generale della Comunicazione e Relazioni Istituzionali e dall'Ufficio stampa, è stata presentata la prima indagine conoscitiva, promossa dal Ministero e realizzata dalla Fondazione LABOS, sul fenomeno della femminilizzazione della Sanità in Italia, che ha rilevato il trend degli anni 2001-2009 ed ha fatto conoscere, attraverso delle interviste, le esperienze e le storie di vita di alcune donne della Sanità che rivestono posizioni di coordinamento e di vertice.

Scopo dell’iniziativa, quello di quantificare e comprendere quali sono le caratteristiche della crescente presenza delle donne nelle strutture della Sanità e quali potranno essere gli scenari futuri nell’ambito della salute in Italia ed in Europa.

"Ricordo che una donna italiana, Rita Levi Montalcini, ha ottenuto il Premio Nobel per la medicina per i suoi importantissimi studi sulle cellule nervose e che Maria Montessoriè nota in tutto il mondo per i suoi studi sulla psichiatria. Sulla scia di queste illustri pioniere sono molte le donne ricercatrici italiane che si stanno facendo onore nel nostroPaese e nel mondo" ha continuato il Ministro Fazio. E ancora: "E’ positivo, come indica la nostra indagine, che tra il 2001 e il 2009 il numero delle donne medico sia aumentato dal 30% al 37% e che le donne si stiano facendo strada anche in specialità considerate tradizionalmente maschili come chirurgia e radiologia. Nell’indagine mi ha favorevolmente colpito che buona parte delle intervistate sostieneche l’atout delle donne in sanità non è comportarsi come i maschi, ma applicare alla medicina le proprie caratteristiche specifiche come la tenacia, l’intuito, la capacità direlazione. Forse sono ancora poche le donne primario negli ospedali, docenti nelle Facoltà di medicina e dirigenti nel Servizio sanitario nazionale. E’ una lacuna che tuttiinsieme dobbiamo impegnarci a colmare e a questo scopo, come ha annunciato il Sottosegretario Martini, istituiremo al Ministero un Tavolo di monitoraggio che avrà anche ilcompito di applicare alle professioni sanitarie l’importantissimo accordo raggiunto ieri sera al Ministero del Lavoro per iniziativa del Ministro Sacconi sulla conciliazione tralavoro e famiglia che punta ad introdurre in tutti i livelli di contrattazione forme di flessibilità, come orari rimodulati, forme di telelavoro, lavori a tempo parziale, nuove forme dicongedi parentali, per conciliare i tempi di vita e i tempi di lavoro delle donne. E’ un accordo che rappresenta una vera pietra miliare per favorire la piena partecipazione delledonne al mercato del lavoro: un altro importante risultato concreto di questo Governo”.

La Conferenza, iniziata con la proiezione di un breve video sulla vita di Maria Montessori, è stata aperta dal Sottosegretario alla Salute On. Francesca Martini che ha sottolineato: “Le donne rappresentano ormai da molti anni la maggioranza del personale impiegato nel Servizio Sanitario Nazionale e dall’800, quando le prime donne si laurearono in medicina, la sanità italiana ha goduto incessantemente dell’apporto del mondo femminile. A fronte di questo però solo poco più del 18% delle donne raggiunge ruoli apicali nel servizio sanitario nazionale e solo 1 su 10 è dirigente medico di struttura complessa (ex primario). Ho fortemente voluto, in accordo con il Ministro Fazio, che il Ministero della Salute, nella giornata della donna, riconoscesse il loro ruolo fondamentale e con la prima Conferenza nazionale della storia della Repubblica dedicata a questo tema abbiamo aperto una riflessione seria e approfondita focalizzando i traguardi raggiunti, ma anche affrontando le criticità emergenti e abbiamo delineato un percorso volto a valorizzare per il futuro le competenze e le qualità intrinseche delle donne che tutti i giorni danno il loro apporto affinché la sanità italiana possa mantenere e incrementare la propria eccellenza. Oggi, con questa Conferenza, abbiamo avviato un percorso storico che proseguirà nel tempo. Istituiremo infatti al Ministero un Tavolo di monitoraggio permanente sulla presenza delle donne nel servizio sanitario nazionale, in cui verrà dato particolare rilievo ai loro sviluppi di carriera. Ci proponiamo inoltre di fornire ai due Rami del Parlamento una Relazione annuale con dati aggiornati che sarà un prezioso strumento di lavoro, di osservazione e di riflessione sia per le Commissioni parlamentari competenti che per tutti i parlamentari, tenendo conto che l’obiettivo prioritario è diffondere una cultura della crescita professionale sul territorio coinvolgendo le Regioni in questo percorso fondamentale".

A seguire una tavola rotonda, moderata dal giornalista RAI Franco Di Mare, in cui sono intervenute donne che a vario titolo ricoprono ruoli rappresentativi nel Servizio sanitario nazionale e che hanno raccontato la propria esperienza e le difficiltà incontrate nel loro percorso legate al genere, e a seguire ci sono state testimonianze dal mondo del volontariato e dell’associazionismo. In chiusura un dibattito al quale hanno partecipato i rappresentanti di Fnomceo, Fimmg, Fimp, Anaao, Cimo e Sumai.

Le donne fotografate dall'Istat

Puntare sulle capacità femminili e sulle donne come risorsa per la crescita del paese, significa davvero costruire un’alternativa radicale al disastro rappresentato da questo governo e alla cultura politica che il centro destra esprime.
di Roberta Agostini, pubblicato il 24 maggio 2011 , 270 letture
I dati Istat resi noti nella giornata di ieri ci parlano di una crisi gravissima, che colpisce le imprese, le famiglie, le donne e i giovani. L’inerzia del governo è ormai lampante. Il centro destra ha alzato i toni della campagna elettorale fino ad arrivare alle ingiurie, agli insulti e alle menzogne perché con le grida pensa di coprire il proprio fallimento.

Ma, oltre le grida, la verità del paese, sta nella fotografia dell’Istat: un numero enorme di donne costrette a lasciare il lavoro alla nascita del primo figlio, la pratica silenziosa delle dimissioni in bianco che colpisce oltre 800 mila lavoratrici, il rischio povertà di troppe famiglie italiane, 2 milioni di giovani che lasciano la scuola e che non lavorano, indici drammatici di disoccupazione, mancanza di libertà di scelta e di opportunità nella quale si traduce la debolezza del nostro stato sociale. Le donne sono state il pilastro sul quale si è retto il nostro sistema di welfare. Cosa il governo pensa di fare di fronte all’evidenza che sotto i tagli al welfare, le donne, come giustamente sottolinea l’Istat, non ce la fanno più? Cosa fare per innalzare il tasso di occupazione femminile?


Il PD ha messo al centro del programma di riforme l’obiettivo strategico dell’incremento del tasso di occupazione femminile: 3 milioni di donne in più al lavoro avrebbero un effetto straordinario in termini di crescita del paese. Per questo continuiamo ostinatamente a chiedere riforme: ripristino delle norme contro le dimissioni in bianco, piano nazionale per gli asili nido, indennità di maternità universale e a carico della fiscalità generale, congedo di paternità obbligatorio sono alcune politiche pubbliche che si potrebbero fare. E si potrebbe partire, ad esempio, dall’impiego del “tesoretto” di 4 miliardi di euro ricavato dai risparmi dell’innalzamento dell’età pensionabile nel pubblico impiego, che invece è sparito nelle sabbie mobili della spesa pubblica.

Le donne sono la grande risorsa su cui investire per aprire una nuova stagione politica, economica, sociale. Le donne vogliono essere protagoniste del cambiamento del paese, come hanno dimostrato scendendo nelle piazze del 13 febbraio, impegnandosi nella campagna elettorale delle amministrative, dando fiducia ai nostri candidati sindaci che si sono rivolti all’elettorato femminile a Milano, a Torino, a Bologna non con promesse vaghe ma con impegni chiari sulla composizione paritaria delle giunte e sull’innovazione delle politiche delle città.
Anche per vincere i ballottaggi questo deve essere tenuto ben fermo. Puntare sulle capacità femminili e sulle donne come risorsa per la crescita del paese, significa davvero costruire un’alternativa radicale al disastro rappresentato da questo governo e alla cultura politica che il centro destra esprime.

In pensione a 65 anni? Donne italiane spremute come limoni

Nel suo ultimo rapporto come governatore della Banca d`Italia, Mario Draghi è tornato a ribadire un concetto ormai condiviso da tutti gli studiosi di economia: la marginalità delle donne nel mercato del lavoro, nelle carriere, nei luoghi decisionali è un elemento di arretratezza; è una carta non spesa per lo sviluppo del Paese. Il governatore continua a essere inascoltato, come inascoltati sono altri soggetti politici e sociali che sostengono la medesima posizione.
La domanda allora è: se promuovere il lavoro femminile è una carta di riserva così importante per far sviluppare il Paese, perché essa non viene giocata? E anzi, al contrario, le donne vengono ricacciate in casa oppure spremute fino all`impossibile, mentre passa solo ciò che è punitivo nei loro confronti e ciò che serve a promuoverle procede lentamente o viene boicottato?


Non è facile rispondere a questa domanda. Sicuramente scontiamo una cultura tradizionale familistica, basata sulla divisione naturale dei ruoli. Ma oggi questa spiegazione storico-culturale non basta più. Si tratta invece di una scelta politica strategica che la destra ha fatto soprattutto negli ultimi anni, accentuata in epoca di crisi economica.
Ha individuato nella famiglia il maggiore ammortizzatore sociale. I tagli al welfare ricadono tutti sulle spalle delle famiglie e, dunque, delle donne: il tempo pieno che si riduce nelle scuole, la non autosufficienza che scompare dalle voci di bilancio, i servizi all`infanzia e alla persona che si riducono per effetto dei tagli alle autonomie locali. Aumenta il peso del lavoro di cura. E intanto, viene elevata l`età pensionabile nel pubblico impiego da 60 a 65 anni, senza dare loro niente in cambio di quei 5 anni considerati dal legislatore a suo tempo come risarcimento proprio per il lavoro di cura svolto.

Ora si paventa l`elevamento dell`età anche per il privato al fine di realizzare altri risparmi. Donne spremute e sfruttate. Niente riconoscimenti del loro valore, solo precarietà e fatica.
Vi ricordate la legge sulle quote nei CdA? Si sta perdendo nella notte dei tempi, non avendo Il governo dato l`autorizzazione per un iter più veloce alla Camera dopo i cambiamenti apportati al Senato, dove molti nel Pdl hanno votato contro con le motivazioni più assurde, ma che si riducono a una: non possono esistere «privilegi» per le donne. Si parla di privilegi in un Paese nel quale, come ha dimostrato Monica D`Ascenzo nel suo documentato «Fatti più in là». Donne al vertice delle aziende: le quote rosa nei CdA (Gruppo24ore) », siamo agli ultimi posti in Europa e nel mondo! Mentre la svolta di cui l`Italia ha bisogno per tornare a crescere ha bisogno del contributo delle donne. Vincerà chi saprà valorizzare i loro talenti, la loro voglia di contribuire alla costruzione civile, sociale, economica del Paese.

martedì 21 giugno 2011

Decreto sviluppo: le principali misure dopo la Camera

Ecco le principali misure del decreto
legge sul rilancio dello sviluppo economico, su cui oggi la
Camera dei deputati ha votato la fiducia al governo:BONUS FISCALE PER OCCUPAZIONE E INVESTIMENTI NEL MEZZOGIORNOLe imprese che assumono lavoratori "svantaggiati" a tempo
indeterminato nelle regioni del Mezzogiorno (Abruzzo,
Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Molise, Sardegna e
Sicilia) si vedranno riconoscere un credito d'imposta "nella
misura del 50% dei costi salariali" sostenuti nei dodici mesi
successivi all'assunzione. Nel caso di lavoratori "molto
svantaggiati", il credito d'imposta è concesso nella misura del
50% dei costi salariali sostenuti nei ventiquattro mesi
successivi all'assunzione.Torna anche il credito di imposta per le imprese che
investono nel Mezzogiorno, introdotto inizialmente nel 2006.Entrambe le misure saranno finanziate con i fondi
strutturali europei e potranno partire solo quando saranno state
individuate le risorse necessarie.SALTANO I DIRITTI DI SUPERFICIE PER LE SPIAGGESoppresso il diritto di superficie sugli arenili, che nella
versione del decreto licenziata in Consiglio dei ministri aveva
una durata di 20 anni.Per rilanciare il turismo, l'articolo 3 prevede
l'istituzione di distretti turistico-alberghieri sul modello
delle reti di impresa. I distretti costituiscono zone a
burocrazia zero e si vedranno riconoscere tutta una serie di
agevolazioni fiscali e burocratiche.LIMITI A GANASCE FISCALI. COMUNI DOVRANNO RISCUOTERE DA SOLIPer i debiti fiscali fino a 2.000 euro Equitalia non potrà
procedere alla riscossione coattiva (le ganasce fiscali) delle
somme iscritte a ruolo senza prima aver inviato al contribuente
due solleciti, intervallati l'uno dall'altro da un periodo di
almeno 6 mesi.Dal primo gennaio 2012 Equitalia cesserà inoltre di
riscuotere gettito fiscale per i comuni.LE NOVITÀ SUL FRONTE DELLA RISCOSSIONESale a 20.000 euro il tetto per le ipoteche nei confronti
dei contribuenti in debito con l'erario. Il nuovo limite, che
riguarda le prime case, si applica sui giudizi pendenti o sulle
iscrizioni a ruolo contestabili. In tutti gli altri casi resta
il tetto di 8.000 euro.Nuovi limiti all'accertamento esecutivo: l'obbligo che i
contribuenti sotto procedimento fiscale avranno dal mese di
luglio di pagare il 50% della maggiore imposta accertata. Il
decreto prevede che il contribuente possa chiedere una
sospensiva fino a 180 giorni, 60 in più dai 120 del testo
originario.LE NORME CONTRO L'OPPRESSIONE FISCALEEsclusi i casi straordinari di controlli per salute,
giustizia ed emergenza, il controllo amministrativo in forma
d'accesso viene unificato, può avvenire al massimo ogni sei mesi
e durare non più di quindici giorni. La violazione di questo
principio costituisce, per i dipendenti pubblici, illecito
disciplinare.Vengono abolite le comunicazioni all'Agenzia delle entrate
che riguardano le ristrutturazioni soggette a detrazione del
36%. Cancellato l'obbligo di comunicazione annuale dei dati
relativi a detrazioni per familiari a carico, tranne nel caso di
variazioni.Gli acquisti di importo superiore a 3.000 euro non dovranno
essere comunicati all'amministrazione fiscale in caso di
pagamento con carte di credito o bancomat.Il decreto prevede anche norme per ridurre le procedure di
appalto. Viene ad esempio elevato da 500.000 e 1 milione di euro
il limite di importo entro il quale è consentito affidare i
lavori con procedura negoziata senza bando di gara.Slitta di sei mesi, al primo giugno 2012, l'operatività del
Sistri, il Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti.PARTENZA PIANO CASA AL MASSIMO TRA 120 GIORNIPer rilanciare le aree degradate, i proprietari di immobili
residenziali potranno aumentare la volumetria fino al 20%. Nel
caso di immobili destinati ad altri usi il premio si riduce al
10%. Le regioni hanno 60 giorni di tempo per adeguarsi. Scaduto
il termine più ampio di 120 giorni, le disposizioni saranno
immediatamente operative.LE BANCHE: DALLO IUS VARIANDI ALLA RINEGOZIAIONE DEI MUTUIIl tasso soglia per l'usura viene definito aumentando del
25% il tasso medio rilevato da Bankitalia più quattro punti
percentuali. La legge attuale, che risale al 1997, calcola il
tasso soglia come il tasso medio aumentato del 50%. Previsto
anche un differenziale massimo tra tasso soglia e tasso medio
pari a 8 punti percentuali.Arrivano delle modifiche sullo ius variandi, cioè la facoltà
che la banca ha di modificare unilateralmente i contratti di
mutuo stipulati con le imprese. Nel contatto dovranno essere
inserite delle clausole, approvate dal cliente, che consentano
di modificare i tassi di interesse al verificarsi di alcune
condizioni.Fino al mese di aprile del 2012 chi ha un mutuo a tasso
variabile non superiore a 200 mila euro ha diritto alla
rinegoziazione a tasso fisso qualora abbia un indicatore della
situazione economica equivalente (Isee) non superiore a 35.000
euro e non abbia avuto ritardi nel pagamento delle rate del
mutuo.OBBLIGAZIONI AGEVOLATE PER IL SUDPer aumentare il flusso di credito nel Mezzogiorno, le
banche potranno emettere specifici titoli di risparmio di
importo nominale complessivo massimo di 3 miliardi di euro
annui, modificabile entro il 31 gennaio di ogni anno. Sugli
interessi si applica un'imposta sostitutiva del 5%.Per ciascun gruppo bancario il limite massimo di emissione è
pari al 20% dell'importo nominale complessivo. Per singole
banche che non fanno parte di un gruppo bancario, il limite
massimo è del 5%. In ogni caso, l'emissione dei titoli non può
superare il 30% del patrimonio di vigilanza consolidato del
gruppo bancario o individuale della banca non facente parte di
un gruppo bancario.L'AUTHORITY PER L'ACQUAIl decreto istituisce l'Agenzia nazionale di vigilanza sulle
risorse idriche, che avrà compiti di regolazione tariffaria e di
tutela degli utenti.L'Autorità potrà anche emanare direttive per la trasparenza
della contabilità delle gestioni e valuta i costi delle singole
prestazioni, definendo indici di valutazione anche su base
comparativa della efficienza e della economicità delle gestioni
a fronte dei servizi resi.

lunedì 9 maggio 2011

Referendum del 12 giugno: ecco i quesiti


Il Referendum è uno strumento di esercizio della sovranità popolare, sancita all’art. 1 della Costituzione della Repubblica Italiana, è l’unico momento in cui i cittadini possono esprimersi direttamente e fare in modo che, sempre direttamente, la propria volontà si affermi a livello nazionale. Il referendum del 12 e 13 giugno è abrogativo, cioè saremo chiamati a pronunciarci sull’eliminazione di parti di normative nazionali vigenti. E’ indispensabile la massima partecipazione dei cittadini italiani aventi diritto di voto perché il referendum sia valido: per superare il quorum dovranno recarsi ai seggi il 50% degli aventi diritto al voto più 1.


martedì, maggio 3rd, 2011 | Pubblicato da Anna Esposito
Referendum del 12 giugno: ecco i quesiti
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48 referendum Referendum del 12 giugno: ecco i quesiti

Il Referendum è uno strumento di esercizio della sovranità popolare, sancita all’art. 1 della Costituzione della Repubblica Italiana, è l’unico momento in cui i cittadini possono esprimersi direttamente e fare in modo che, sempre direttamente, la propria volontà si affermi a livello nazionale. Il referendum del 12 e 13 giugno è abrogativo, cioè saremo chiamati a pronunciarci sull’eliminazione di parti di normative nazionali vigenti. E’ indispensabile la massima partecipazione dei cittadini italiani aventi diritto di voto perché il referendum sia valido: per superare il quorum dovranno recarsi ai seggi il 50% degli aventi diritto al voto più 1.

Primo quesito- ACQUA
Il primo quesito sulla privatizzazione dell’acqua riguarda le modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione:

Volete Voi che sia abrogato l’art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e finanza la perequazione tributaria”, convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”, e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea”, convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale?

VOTA SI se sei contro la privatizzazione della gestione del servizio idrico.

Secondo quesito- ACQUA
Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norma:

Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell’art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 “Norme in materia ambientale”, limitatamente alla seguente parte: “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”?

VOTA SI se vuoi abrogare il comma 1 dell’art. 154 del D.L. n° 152/2006 che autorizza il gestore dell’acqua ad ottenere dei profitti garantiti sulla tariffa, caricando la bolletta dei cittadini di un 7% in più senza un collegamento a logiche di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio.

Terzo quesito- NUCLEARE
Nuove centrali per la produzione di energia nucleare. Abrogazione parziale di norme:

Volete voi che sia abrogato il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante per effetto di modificazioni e integrazioni successive, recante “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e perequazione tributaria”, limitatamente alle seguenti parti:

art. 7, comma 1, lettera d: “d) realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare;”; nonché la legge 23 luglio 2009, n. 99, nel testo risultante per effetto di modificazioni e integrazioni successive, recante “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”, limitatamente alle seguenti parti: art. 25, comma 1, limitatamente alle parole: “della localizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare,”; art. 25, comma 1, limitatamente alle parole: “Con i medesimi decreti sono altresì stabiliti le procedure autorizzative e i requisiti soggettivi per lo svolgimento delle attività di costruzione, di esercizio e di disattivazione degli impianti di cui al primo periodo.”; art. 25, comma 2, lettera c), limitatamente alle parole: “, con oneri a carico delle imprese coinvolte nella costruzione o nell’esercizio degli impianti e delle strutture, alle quali è fatto divieto di trasferire tali oneri a carico degli utenti finali”; art. 25, comma 2, lettera d), limitatamente alle parole: “che i titolari di autorizzazioni di attività devono adottare”; art. 25, comma 2, lettera g), limitatamente alle parole: “la costruzione e l’esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica nucleare e di impianti per”; art. 25, comma 2, lettera g), limitatamente alla particella “per” che segue le parole “dei rifiuti radioattivi o”; art. 25, comma 2, lettera i): “i) previsione che le approvazioni relative ai requisiti e alle specifiche tecniche degli impianti nucleari, già concesse negli ultimi dieci anni dalle Autorità competenti di Paesi membri dell’Agenzia per l’energia nucleare dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (AENOCSE) o dalle autorità competenti di Paesi con i quali siano definiti accordi bilaterali di cooperazione tecnologica e industriale nel settore nucleare, siano considerate valide in Italia, previa approvazione dell’Agenzia per la sicurezza nucleare;”; art. 25, comma 2, lettera l), limitatamente alle parole: “gli oneri relativi ai”; art. 25, comma 2, lettera l), limitatamente alle parole: “a titolo oneroso a carico degli esercenti le attività nucleari e possano essere”; art. 25, comma 2, lettera n): “n) previsione delle modalità attraverso le quali i produttori di energia elettrica nucleare dovranno provvedere alla costituzione di un fondo per il «decommissioning»;”; art. 25, comma 2, lettera o), limitatamente alla virgola che segue le parole “per le popolazioni”; art. 25, comma 2, lettera o), limitatamente alle parole: “, al fine di creare le condizioni idonee per l’esecuzione degli interventi e per la gestione degli impianti”; art. 25, comma 2, lettera q): “q) previsione, nell’ambito delle risorse di bilancio disponibili allo scopo, di una opportuna campagna di informazione alla popolazione italiana sull’energia nucleare, con particolare riferimento alla sua sicurezza e alla sua economicità.”; art. 25, comma 3: “Nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa che comunque riguardino le procedure di progettazione, approvazione e realizzazione delle opere, infrastrutture e insediamenti produttivi concernenti il settore dell’energia nucleare e relative attività di espropriazione, occupazione e asservimento si applicano le disposizioni di cui all’art. 246 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.”; art. 25, comma 4: “4. Al comma 4 dell’articolo 11 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79, dopo le parole: «fonti energetiche rinnovabili» sono inserite le seguenti: «, energia nucleare prodotta sul territorio nazionale».”; art. 26; art. 29, comma 1, limitatamente alle parole: “gli impieghi pacifici dell’energia nucleare,”; art. 29, comma 1, limitatamente alle parole: “sia da impianti di produzione di elettricità sia”; art. 29, comma 1, limitatamente alle parole: “costruzione, l’esercizio e la”; art. 29, comma 4, limitatamente alle parole: “nell’ambito di priorità e indirizzi di politica energetica nazionale e”; art. 29, comma 5, lettera c), limitatamente alle parole: “sugli impianti nucleari nazionali e loro infrastrutture,”; art. 29, comma 5, lettera e), limitatamente alle parole: “del progetto, della costruzione e dell’esercizio degli impianti nucleari, nonché delle infrastrutture pertinenziali,”; art. 29, comma 5, lettera g), limitatamente alle parole: “, diffidare i titolari delle autorizzazioni”; art. 29, comma 5, lettera g), limitatamente alle parole: “da parte dei medesimi soggetti”; art. 29, comma 5, lettera g), limitatamente alle parole: “di cui alle autorizzazioni”; art. 29, comma 5, lettera g), limitatamente alla parola: “medesime”; art. 29, comma 5, lettera h): “h) l’Agenzia informa il pubblico con trasparenza circa gli effetti sulla popolazione e sull’ambiente delle radiazioni ionizzanti dovuti alle operazioni degli impianti nucleari e all’utilizzo delle tecnologie nucleari, sia in situazioni ordinarie che straordinarie;”; art. 29, comma 5, lettera i), limitatamente alle parole: “all’esercizio o”; art. 133, comma 1, lettera o) del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 limitatamente alle parole “ivi comprese quelle inerenti l’energia di fonte nucleare”; nonché il decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31, nel testo risultante per effetto di modificazioni e integrazioni successive, recante “Disciplina della localizzazione, della realizzazione e dell’esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché misure compensative e campagne informative al pubblico, a norma dell’art. 25 della legge 23 luglio 2009, n. 99″, limitatamente alle seguenti parti: il titolo del decreto legislativo, limitatamente alle parole: “della localizzazione, della realizzazione e dell’esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare,”; il titolo del decreto legislativo, limitatamente alle parole: “e campagne informative al pubblico”; art. 1, comma 1, limitatamente alle parole: “della disciplina della localizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare,”; art. 1, comma 1, lettera a): “a) le procedure autorizzative e i requisiti soggettivi degli operatori per lo svolgimento nel territorio nazionale delle attività di costruzione, di esercizio e di disattivazione degli impianti di cui all’art. 2, comma 1, lettera e), nonché per l’esercizio delle strutture per lo stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi ubicate nello stesso sito dei suddetti impianti e ad essi direttamente connesse;”; art. 1, comma 1, lettera b): “b) il Fondo per la disattivazione degli impianti nucleari;”; art. 1, comma 1, lettera c): “c) le misure compensative relative alle attività di costruzione e di esercizio degli impianti di cui alla lettera a), da corrispondere in favore delle persone residenti, delle imprese operanti nel territorio circostante il sito e degli enti locali interessati;”; art. 1, comma 1, lettera d), limitatamente alle parole: “e future”; art. 1, comma 1, lettera g): “g) un programma per la definizione e la realizzazione di una “Campagna di informazione nazionale in materia di produzione di energia elettrica da fonte nucleare”;”; art. 1, comma 1, lettera h): “h) le sanzioni irrogabili in caso di violazione delle norme prescrittive di cui al presente decreto.”; art. 2, comma 1, lettera b): “b) “area idonea” è la porzione di territorio nazionale rispondente alle caratteristiche ambientali e tecniche e ai relativi parametri di riferimento che qualificano l’idoneità all’insediamento di impianti nucleari;”; art. 2, comma 1, lettera c): “c) “sito” è la porzione dell’area idonea che viene certificata per l’insediamento di uno o più impianti nucleari;”; art. 2, comma 1, lettera e): “e) “impianti nucleari” sono gli impianti di produzione di energia elettrica di origine nucleare e gli impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, realizzati nei siti, comprensivi delle opere connesse e delle relative pertinenze, ivi comprese le strutture ubicate nello stesso sito per lo stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi direttamente connesse all’impianto nucleare, le infrastrutture indispensabili all’esercizio degli stessi, le opere di sviluppo e adeguamento della rete elettrica di trasmissione nazionale necessarie all’immissione in rete dell’energia prodotta, le eventuali vie di accesso specifiche;”; art. 2, comma 1, lettera f): “f) “operatore” è la persona fisica o giuridica o il consorzio di persone fisiche o giuridiche che manifesta l’interesse ovvero è titolare di autorizzazione alla realizzazione ed esercizio di un impianto nucleare;”; art. 2, comma 1, lettera i), limitatamente alle parole: “dall’esercizio di impianti nucleari, compresi i rifiuti derivanti”; art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “, con il quale sono delineati gli obiettivi strategici in materia nucleare, tra i quali, in via prioritaria, la protezione dalle radiazioni ionizzanti e la sicurezza nucleare”; art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “la potenza complessiva e i tempi attesi di costruzione e di messa in esercizio degli impianti nucleari da realizzare,”; art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “valuta il contributo dell’energia nucleare in termini di sicurezza e diversificazione energetica,”; art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “, benefici economici e sociali e delinea le linee guida del processo di realizzazione”; art. 3, comma 2: “2. La Strategia nucleare costituisce parte integrante della strategia energetica nazionale di cui all’art. 7 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.”; art. 3, comma 1, lettera a): “a) l’affidabilità dell’energia nucleare, in termini di sicurezza nucleare ambientale e degli impianti, di eventuale impatto sulla radioprotezione della popolazione e nei confronti dei rischi di proliferazione;”; art. 3, comma 3, lettera b): “b) i benefici, in termini di sicurezza degli approvvigionamenti, derivanti dall’introduzione di una quota significativa di energia nucleare nel contesto energetico nazionale;”; art. 3, comma 3, lettera c): “c) gli obiettivi di capacità di potenza elettrica che si intende installare in rapporto ai fabbisogni energetici nazionali e i relativi archi temporali;”; art. 3, comma 3, lettera d): “d) il contributo che si intende apportare, attraverso il ricorso all’energia nucleare, in quanto tecnologia a basso tenore di carbonio, al raggiungimento degli obiettivi ambientali assunti in sede europea nell’ambito del pacchetto clima energia nonché alla riduzione degli inquinanti chimico-fisici;”; art. 3, comma 3, lettera e): “e) il sistema di alleanze e cooperazioni internazionali e la capacità dell’industria nazionale e internazionale di soddisfare gli obiettivi del programma;”; art. 3, comma 3, lettera f): “f) gli orientamenti sulle modalità realizzative tali da conseguire obiettivi di efficienza nei tempi e nei costi e fornire strumenti di garanzia, anche attraverso la formulazione o la previsione di emanazione di specifici indirizzi;”; art. 3, comma 3, lettera g), limitatamente alle parole: “impianti a fine vita, per i nuovi insediamenti e per gli”; art. 3, comma 3, lettera h): “h) i benefici attesi per il sistema industriale italiano e i parametri delle compensazioni per popolazione e sistema delle imprese;”; art. 3, comma 3, lettera i): “i) la capacità di trasmissione della rete elettrica nazionale, con l’eventuale proposta di adeguamenti della stessa al fine di soddisfare l’obiettivo prefissato di potenza da installare;”; art. 3, comma 3, lettera l): “l) gli obiettivi in materia di approvvigionamento, trattamento e arricchimento del combustibile nucleare.”; l’intero Titolo II, rubricato “Procedimento unico per la localizzazione, la costruzione e l’esercizio degli impianti nucleari; disposizioni sui benefici economici per le persone residenti, gli enti locali e le imprese; disposizioni sulla disattivazione degli impianti”, contenente gli artt. da 4 a 24; art. 26, comma 1, limitatamente alle parole: “della disattivazione”; art. 26, comma 1, lettera d), limitatamente alle parole: “riceve dagli operatori interessati al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti radioattivi il corrispettivo per le attività di cui all’art. 27, con modalità e secondo tariffe stabilite con decreto del Ministero dello sviluppo economico di concerto con il Ministero dell’economia e finanze, ed”; art. 26, comma 1, lettera d), limitatamente alle parole: “, calcolate ai sensi dell’art. 29 del presente decreto legislativo”; art. 26, comma 1, lettera e), limitatamente alle parole: “, al fine di creare le condizioni idonee per l’esecuzione degli interventi e per la gestione degli impianti”; art. 27, comma 1, limitatamente alle parole: “e sulla base delle valutazioni derivanti dal procedimento di Valutazione Ambientale Strategica di cui all’art. 9″; art. 27, comma 4, limitatamente alle parole: “, comma 2″; art. 27, comma 10, limitatamente alle parole: “Si applica quanto previsto dall’art. 12.”; art. 29; art. 30, comma 1, limitatamente alle parole: “riferito ai rifiuti radioattivi rinvenienti dalle attività disciplinate dal Titolo II del presente decreto legislativo e uno riferito ai rifiuti radioattivi rinvenienti dalle attività disciplinate da norme precedenti”; art. 30, comma 2: “2. Per quanto concerne i rifiuti radioattivi derivanti dalle attività disciplinate dal Titolo II del presente decreto legislativo, il contributo di cui al comma 1 è posto a carico della Sogin SpA secondo criteri definiti con decreto del Ministro dello Sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e la tutela del territorio e del mare e con il Ministro dell’economia e finanze che tiene conto del volume complessivo e del contenuto di radioattività. Tale contributo è ripartito secondo quanto previsto all’art. 23 comma 4.”; art. 30, comma 3: “3. La disposizione di cui al comma 2 non si applica ai rifiuti radioattivi derivanti da attività già esaurite al momento dell’entrata in vigore del presente decreto, per i quali rimane ferma la disciplina di cui all’art. 4 del decreto-legge 14 novembre 2003, n. 314, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2003, n. 368, così come modificato dall’art. 7-ter del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 208, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2009, n 13.”; l’intero Titolo IV, rubricato “Campagna di informazione”, contenente gli artt. 31 e 32; art. 33; art. 34;
art. 35, comma 1: “1. Sono abrogate le seguenti disposizioni di legge: a) articolo 10 della legge 31 dicembre 1962, n. 1860; b) articoli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 20, 22 e 23 della legge 2 agosto 1975, n. 393.”

VOTA SI se pensi che investire nell’energia nucleare sia costoso, pericoloso e non risolutivo.

Quarto quesito- LEGITTIMO IMPEDIMENTO
Abrogazione della legge 7 aprile 2010, n. 51 in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri a comparire in udienza penale:

Volete voi che siano abrogati l’articolo 1, commi 1, 2, 3, 5 e 6, nonché l’articolo 2, della legge 7 aprile 2010, n. 51, recante “Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza”?

VOTA SI per abrogare parte della Legge n° 51/2010, se volete sostenere il principio che la legge è uguale per tutti, senza eccezioni.