domenica 9 ottobre 2011

La gande sfida dell'economia sociale

Terzo settore. Terzo rispetto a stato e mercato: fornisce servizi di rilevanza sociale e pubblica, ma si sottrae alla logica della ricerca del profitto che caratterizza le imprese commerciali, così come alla rigidità burocratica della gestione pubblica diretta. Sfugge dunque alla tradizionale contrapposizione tra pubblico e privato. Suscita istintiva simpatia perché mobilita energie appellandosi a principi di cooperazione, solidarietà e reciprocità. Ma attira anche diffidenza.

A destra c’è il timore che dietro al favore fiscale e al sostegno pubblico alle realtà “non per profitto” si nascondano forme di concorrenza poco leale verso le imprese for profit e di indiretta espansione dell’area dell’economia assistita. A sinistra c’è la paura che la retorica della «grande società» segni un arretramento dell’impegno sociale delle istituzioni pubbliche, una deresponsabilizzazione collettiva; c’è il sospetto che il vantaggio competitivo di molte forme di cooperazione e di nonprofit stia nel minore rispetto dei diritti dei lavoratori; c’è infine la preoccupazione che la delega di funzioni sociali a soggetti non vincolati a obblighi di universalismo possa portare a una balcanizzazione e a forme di selezione basate sull’appartenenza, in violazione al principio di uguaglianza. Si tratta di aspetti da prendere sul serio, con azione di vigilanza e definendo standard che preservino il principio di accesso universale. Ma l’errore più grande sarebbe sottovalutare le potenzialità e il ruolo di una realtà che è presente da sempre, ha grande rilevanza, e svolge spesso un ruolo di supplenza dove le istituzioni pubbliche sono carenti. È attraverso forme di auto-organizzazione sociale che i legami di solidarietà e reciprocità si sono strutturati, prima dello sviluppo del welfare pubblico, per rispondere ai bisogni di una società che cresceva in complessità, erodendo i legami tradizionali e familiari. Cooperazione e mutualità si sviluppavano nel credito, nella fornitura di assicurazione contro i grandi rischi dell’esistenza, di servizi all’individuo e alla famiglia. Nel corso del Novecento lo stato è intervenuto per superare le insufficienze e la frammentazione di molte di queste forme, per porre rimedio a una debolezza finanziaria che rischiava spesso di mettere a rischio l’erogazione delle prestazioni, specialmente laddove queste erano di natura assicurativa-finanziaria o dove la scala produttiva portava a chiari vantaggi. Il passaggio dalla forma volontaria all’assunzione di responsabilità pubblica nel garantire diritti universali è una conquista di civiltà che dobbiamo considerare irreversibile. Essa non esclude tuttavia uno spazio importante e complementare per questa forma «terza», specialmente nell’erogazione diretta di servizi alla persona che non richiedono investimenti in capitale e non traggono vantaggio dalla centralizzazione.

La discussione economica tende a guardare a queste realtà con sufficienza, considerando l’economia rivolta al sociale come secondaria. Eppure possono esserci notevoli benefici anche economici dal sollecitare e promuovere, da parte del pubblico, lo sviluppo del terzo settore in campo sociale. Basti l’esempio dei servizi di cura agli anziani. I vantaggi sarebbero molteplici rispetto alla situazione attuale, in cui il peso ricade quasi interamente sulle famiglie, cioè sulle donne: si risponderebbe a un bisogno in modo efficace perché organizzato e professionalizzato; si fornirebbero opportunità di impiego a molte donne che hanno visto erodersi il loro “capitale umano” per effetto della lontananza forzata dal mondo del lavoro; si alleggerirebbe infine il carico delle responsabilità di cura per molte famiglie, riducendo i costi della partecipazione (specialmente femminile) al lavoro. Anche questa è una politica per la crescita.
9 ottobre 2011-Massimo D'Antoni-

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