domenica 9 ottobre 2011

BENE PUBBLICO:Come difendersi da liberisti e populisti?

Se ancora una qualche parvenza di funzione pubblica continua ad esistere
in questo malandato Paese, lo si deve soprattutto al sacrificio quotidiano
di singole persone, di associazioni,di amministratori e di dirigenti responsabili.
Nel degrado di un’amministrazione da anni abbandonataall’incuria, servizi pubblici dignitosisono offerti ai cittadini solo perché tanti insegnanti, infermieri,impiegati, ricercatori, medici,militari, sindaci coprono le falle diuna macchina resa inanimata dalle prolungate amputazioni finanziarie.
Senza mezzi, con un turnover bloccato, con macchinari usurati e in edifici degradati in tanti si dedicano con dedizione al bene pubblico e ricevono in cambio solo magri stipendi, contratti temporanei e un abbondante supplemento di insulti che proprio i ministri spesso si incaricano di recapitare loro per ottenere una gratuita popolarità.
L’ideologia della destra, sempre assecondata dalla grande stampa di opinione, è quella del pubblico come santuario del privilegio abitato
da sterminati eserciti di fannulloni.
I governi hanno fatto di tutto per distruggere ogni traccia di pubblico. In nome del merito sono state umiliate scuola e università,colpite dai nuovi barbari con immagini caricaturali. Da anni Tremontiagita le forbici per ordinare i tagli lineari ad ogni comparto pubblico, dalla scuola alla sanità,dalla giustizia alla sicurezza. Parole offensive e norme punitive sono state le sole risposte che i governi hanno fornito al forte bisogno di
un ammodernamento della sfera pubblica nell’età della sussidiarietà
e del decentramento amministrativo.
Così però, a causa della ferocia distruttiva dello spazio pubblico
che assume il nome deviante di riforma, l’Italia regredisce velocemente
in tutti gli indicatori di qualità della vita, di propensione
all’innovazione e di efficienza dellastruttura amministrativa. Lo
smembramento della amministrazione calpesta le sedi istituzionali
necessarie per implementare la legislazione appena varata e destinata
a smarrirsi nei labirinti della prevedibile mancata attuazione.
Il fatto è che, per motivi organici al suo credo, il populismo assumeil
pubblicocomeil nemico principale.
Dipingendo il pubblico come un costo inutile e quindi come un fardello duro da sopportare per i laboriosi uomini del fare, esso raggiunge un facile consenso per poter smantellare ciò che ancora resta di uno Stato sociale sempre più residuale. Inoltre, proprio calpestando
ogni nozione virtuosa di pubblico, il populismo giustifica i comportamenti poco edificanti di una vasta componente della società che evade sistematicamente il fisco e prosciuga così la fonte stessa delle politiche pubbliche. La ricchezza privata preferisce racimolare nel mercato i servizi necessari o adoperare in modo parassitario quelli che soprattutto i lavoratori pagano con le trattenute alla fonte e così, nel buco gigantesco delle entrate fiscali, la tragedia del pubblico e l’eutanasia dei beni comuni si possono consumare.Il degrado delle città infinite e le
isole di opulenza delle micro città private convivono nello stesso spazio
guardandosi in cagnesco. Le telecamere poste a presidio della sicurezza
della privata isola del lusso sono minacciate da una città sempre più inospitale e aggressiva,con strade ridotte a pattumiera e con luoghi di ritrovo abbandonati allo scempio. Il populismo, demolendo le politiche pubbliche di inclusione sociale, costruisce un muro tra due società rese ostili. Occorre reagire a questa entropia del pubblico che azzera i fondi per la scuola, umilia la ricerca, sospende i servizi e getta l’Italia tra le retrovie dei paesi civili. Nel deserto del pubblico crescono solo gli indici di diseguaglianza.

(MICHELE PROSPERO)

La gande sfida dell'economia sociale

Terzo settore. Terzo rispetto a stato e mercato: fornisce servizi di rilevanza sociale e pubblica, ma si sottrae alla logica della ricerca del profitto che caratterizza le imprese commerciali, così come alla rigidità burocratica della gestione pubblica diretta. Sfugge dunque alla tradizionale contrapposizione tra pubblico e privato. Suscita istintiva simpatia perché mobilita energie appellandosi a principi di cooperazione, solidarietà e reciprocità. Ma attira anche diffidenza.

A destra c’è il timore che dietro al favore fiscale e al sostegno pubblico alle realtà “non per profitto” si nascondano forme di concorrenza poco leale verso le imprese for profit e di indiretta espansione dell’area dell’economia assistita. A sinistra c’è la paura che la retorica della «grande società» segni un arretramento dell’impegno sociale delle istituzioni pubbliche, una deresponsabilizzazione collettiva; c’è il sospetto che il vantaggio competitivo di molte forme di cooperazione e di nonprofit stia nel minore rispetto dei diritti dei lavoratori; c’è infine la preoccupazione che la delega di funzioni sociali a soggetti non vincolati a obblighi di universalismo possa portare a una balcanizzazione e a forme di selezione basate sull’appartenenza, in violazione al principio di uguaglianza. Si tratta di aspetti da prendere sul serio, con azione di vigilanza e definendo standard che preservino il principio di accesso universale. Ma l’errore più grande sarebbe sottovalutare le potenzialità e il ruolo di una realtà che è presente da sempre, ha grande rilevanza, e svolge spesso un ruolo di supplenza dove le istituzioni pubbliche sono carenti. È attraverso forme di auto-organizzazione sociale che i legami di solidarietà e reciprocità si sono strutturati, prima dello sviluppo del welfare pubblico, per rispondere ai bisogni di una società che cresceva in complessità, erodendo i legami tradizionali e familiari. Cooperazione e mutualità si sviluppavano nel credito, nella fornitura di assicurazione contro i grandi rischi dell’esistenza, di servizi all’individuo e alla famiglia. Nel corso del Novecento lo stato è intervenuto per superare le insufficienze e la frammentazione di molte di queste forme, per porre rimedio a una debolezza finanziaria che rischiava spesso di mettere a rischio l’erogazione delle prestazioni, specialmente laddove queste erano di natura assicurativa-finanziaria o dove la scala produttiva portava a chiari vantaggi. Il passaggio dalla forma volontaria all’assunzione di responsabilità pubblica nel garantire diritti universali è una conquista di civiltà che dobbiamo considerare irreversibile. Essa non esclude tuttavia uno spazio importante e complementare per questa forma «terza», specialmente nell’erogazione diretta di servizi alla persona che non richiedono investimenti in capitale e non traggono vantaggio dalla centralizzazione.

La discussione economica tende a guardare a queste realtà con sufficienza, considerando l’economia rivolta al sociale come secondaria. Eppure possono esserci notevoli benefici anche economici dal sollecitare e promuovere, da parte del pubblico, lo sviluppo del terzo settore in campo sociale. Basti l’esempio dei servizi di cura agli anziani. I vantaggi sarebbero molteplici rispetto alla situazione attuale, in cui il peso ricade quasi interamente sulle famiglie, cioè sulle donne: si risponderebbe a un bisogno in modo efficace perché organizzato e professionalizzato; si fornirebbero opportunità di impiego a molte donne che hanno visto erodersi il loro “capitale umano” per effetto della lontananza forzata dal mondo del lavoro; si alleggerirebbe infine il carico delle responsabilità di cura per molte famiglie, riducendo i costi della partecipazione (specialmente femminile) al lavoro. Anche questa è una politica per la crescita.
9 ottobre 2011-Massimo D'Antoni-

domenica 18 settembre 2011

No al taglio dell’assistenza!



La Manovra bis è stata approvata il giorno 14 settembre 2011. È stata, quindi, sospesa l’iniziativa di invio di messaggi promossa da FISH e FAND. Ringraziamo le 23.329 persone che in dieci giorni hanno aderito a questa forma civile di protesta. Un numero elevatissimo che dimostra quanto vivida sia la preoccupazione fra i Cittadini italiani riguardo alla sorte delle politiche sociali italiane. La FISH mantiene forte l’attenzione sull’iter del disegno di legge di delega sulla riforma assistenziale e si prepara a nuove e decise iniziative che avranno, ancora una volta, necessità del supporto di tutti.






Nella caotica ed incerta situazione che avvolge la discussione sulla Manovra bis, una sola decisione sembra intoccabile: la riforma fiscale e assistenziale che consenta di drenare 40 miliardi in tre anni dalle tasche delle famiglie e dai servizi alle persone.

La riforma dell’assistenza che è necessaria nel nostro Paese non è certo quella che il Governo propone. Servizi migliori, più efficienti e vicini ai diritti e ai bisogni delle persone, moderni e volti all’inclusione anziché alla segregazione, sono lontanissimi dalla volontà di chi intende comprimere ancora l’assistenza sociale, piegandola alle esigenze di cassa, sacrificandola per evitare di assumere decisioni che possano disturbare altre e più forti categorie di cittadini.

Le Federazioni delle associazioni delle persone con disabilità (FAND e FISH), rifiutano recisamente questa ipotesi che prelude al confinamento e all’esclusione di disabili, bambini in difficoltà, non autosufficienti.

Le Federazioni, coscienti del momento politico, avanzano una sola richiesta: sganciare la riforma assistenziale da ogni automatico vincolo pregiudiziale di cassa fissato dalla Manovra di luglio (Legge 111) e drammaticamente confermata da quella in discussione. Non si faccia cassa sui servizi alle persone!

Le Federazioni chiamano a raccolta non solo tutti gli aderenti, ma anche, al di là delle sigle e degli schieramenti, ogni persona con coscienza civile che abbia a cuore il futuro del nostro Paese e la sua coesione sociale. Chiedono a tutti di supportare e rafforzare la loro azione politica, e le altre proteste simili diffuse in tutta Italia, facendo sentire la voce di ognuno.

Abbiamo predisposto un semplice modulo che consente ad ognuno di aderire all’iniziativa, inviando automaticamente la conseguente protesta alla Presidenza del Consiglio, ai Ministri dell’economia e del Lavoro e ai diversi responsabili delle Commissioni parlamentari coinvolti nella discussione.

Non ci sarà mai crescita in un Paese insensibile a chi è rimasto o può rimanere indietro, in un Paese disattento a chi subisce discriminazioni e gode meno opportunità!

1 settembre 2011



FAND (Federazione fra le Associazioni Nazionali delle persone con Disabilità)

FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap)



Quello che segue è il testo sottoscritto ed inviato da 23.329 persone che riportiamo come documentazione.

al Presidente del Consiglio dei Ministri
al Ministro dell’economia
al Ministro del lavoro e delle politiche sociali
ai Capigruppo parlamentari del Senato
e ai segretari dei Partiti Politici





Oggetto: Manovra: sganciare la riforma dell’assistenza dai vincoli di cassa.



Sono un Cittadino e vorrei che questo Paese ponesse nella dovuta attenzione i diritti e le necessità di tutte le persone come ci insegna la nostra Costituzione.

Come si può pensare alla crescita e alla coesione sociale in un Paese insensibile a chi è rimasto o rischia di rimanere indietro, in un Paese che non presta la giusta e doverosa attenzione alle persone anziane, ai bambini in difficoltà, alle persone con disabilità, ai non autosufficienti?

Come si può immaginare l’uguaglianza in un Paese disattento alla discriminazione e alle pari opportunità?

Ritengo che la spesa sociale non possa essere determinata da logiche di cassa, né che i diritti civili ed umani possano essere sacrificati per compiacere interessi diversi.

In questi giorni il Parlamento è chiamato ad affrontare la discussione sulla Manovra Bis (Decreto legge 138/2011).

Fra le ipotesi al vaglio – e finora da nessuno contestata apertamente – c’è anche la volontà di varare una riforma assistenziale e fiscale con l’unico intento di recuperare 40 miliardi da qui al 2014.

La riforma dell’assistenza che è necessaria nel nostro Paese, non è certo quella che il Governo propone. Servizi migliori, più efficienti e vicini ai diritti e ai bisogni delle persone, moderni e volti all’inclusione anziché alla segregazione, sono lontanissimi dalla volontà di chi intende comprimere ancora l’assistenza sociale, piegandola alle esigenze di cassa, sacrificandola per evitare di prendere decisioni che possano disturbare altre e più forti categorie di Cittadini.

Unendomi alle preoccupazioni diffuse nel Paese e alle giuste proteste di tante parti sociali, come Cittadino chiedo di sganciare la riforma assistenziale da ogni automatico vincolo pregiudiziale di cassa come invece prevede la Manovra di luglio (Legge 111), drammaticamente confermata da quella in discussione.

Non si faccia cassa sui servizi alle persone!

Attendo una coerente e tempestiva risposta politica nel Suo comportamento parlamentare, e su questo, da Cittadino, la giudicherò.

domenica 28 agosto 2011

"Se questo è un uomo"....



Non riescono a risparmiare e i loro consumi superano le entrate, sia pur di poco. Oggi nel 38 per cento dei casi vivono al di sotto della soglia di povertà, contro la media italiana che è pari al 12,1 per cento. E' l'identikit delle famiglie di origine straniera che abitano nel nostro Paese, come emerge da un'indagine della fondazione Leone Moressa.
Il reddito annuo di una famiglia straniera ammonta mediamente a 17.400 euro contro i quasi 33mila di una italiana. Novanta famiglie immigrate su 100 hanno un reddito che deriva da lavoro dipendente (contro il 40 per cento di quelle italiane). Solo il 7.7 per cento degli stranieri ha un lavoro autonomo e appena il 6 per cento ha un reddito che deriva da capitale (contro il 21.7 della media italiana). Insomma, il profilo economico e finanziario di chi arriva nel nostro Paese è ancora diversissimo da chi ci è nato. Le famiglie straniere d'altra parte destinano buona parte delle loro entrate alle spese mensili per la casa, visto che il 79,1 per cento vive in affitto, il 9,6 per cento è in uso gratuito e solo l'11,3 per cento ha una casa di proprietà (quasi 72 italiani su 100, invece, possiedono la casa in cui abitano).
I consumi degli stranieri si attestano a 17.700 euro, contro i 24 mila euro delle famiglie italiane. Il livello di risparmio degli immigrati è dunque addirittura negativo (meno 362 euro) e a questo dato contribuiscono le rimesse che vengono destinate ai Paesi d'origine. Per quanto riguarda i consumi, invece, il comportamento degli immigrati
è molto simile a quello degli italiani: la quasi totalità delle spese è destinata a beni non durevoli: 94,9 per cento per le famiglie straniere contro il 93,1 delle italiane. Il resto all'acquisto di beni durevoili: 5,1 per cento per gli immigrati, 6,9 per gli italiani.


E quelle poche famiglie straniere che riescono a risparmiare, cosa fanno dei loro soldi? La quasi totalità li versa su un conto corrente bancario (79,6%), pochissime ricorrono a obbligazioni (1,3%), titoli di stato (0,1%) o altre forme di investimento (1,3%). Le famiglie italiane invece, sebbene l'89,5% lasci comunque depositati parte dei propri soldi sul conto corrente, mostrano maggiore varietà di investimento. Nell'11,6% dei casi possiedono obbligazioni o quote di fondi comuni, nel 9,7% titoli di stato, mentre quasi il 20% investe in altre forme (come azioni, partecipazioni, gestioni patrimoniali e prestiti a cooperative).

Secondo i ricercatori della fondazione Leone Moressa, la struttura del reddito degli immigrati conferma come loro rappresentino l'anello debole del mercato del lavoro. La crisi economica, con la perdita del posto, rischia infatti di privarli dell'unica entrata su cui possono sostanzialmente contare, quella da lavoro dipendente. Oltre a condannarli a perdere il soggiorno nel nostro Paese. Se il trend della disoccupazione non invertirà la rotta, insomma, molti altri finiranno sotto la soglia di povertà.

sabato 27 agosto 2011

Così la manovra cancella

Il vero segnale del declino politico e culturale del Paese è il posto che in questi giorni di teso dibattito sulla manovra occupa il tema occupazione, in particolare occupazione giovanile. Parliamo di tutto, dei tagli selvaggi a Comuni e Regioni, del cosiddetto contributo di solidarietà, se deve essere commisurato ai redditi o ai patrimoni. Si parla e si è parlato di tutto tranne che di lavoro. Il problema numero uno del Paese è la sua ridotta base occupazionale che ci pone all’ultimo posto in Europa.

La dura realtà è che in Italia lavorano solo 56 cittadini tra i 15-64 anni ogni 100, contro una media del 65% in Europa e del 70% nei Paesi del Nord: Germania, Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia. Questo significa che all’Italia mancano quasi tre milioni di posti lavoro per essere un Paese allineato all’Europa. L’ultima indagine di Confartigianato fotografa una situazione nota a tutti tranne che ai soloni che hanno progettato la manovra. Naturalmente all’interno di queste cifre disastrose di cui nessuno del governo si preoccupa c’è il dramma dei giovani: 1 milione e 400mila gli under 35 disoccupati ed ancora peggio va ai ragazzi sino a 24 anni. In questa fascia uno su tre è senza lavoro con un tasso di disoccupazione quasi del 30% contro una media Ue del 20%. Il problema italiano del più basso tasso di occupazione (occupati sulla popolazione 15-64 anni) europeo non è di oggi ma si è ingigantito grazie alle politiche antisviluppo e soprattutto anti occupazione di questo governo.

Perché solo in Italia lo straordinario costa meno dell’orario normale mentre in Francia e Germania costa almeno il 25% in più? Perché la Germania ha tenuto sotto controllo i livelli occupazionali anche negli anni peggiori della crisi - 2008, 2009, 2010 - favorendo orari ridotti mentre in Italia anche gli strumenti esistenti come i contratti di solidarietà sono stati applicati poco e male? Perché nell’ampio e confuso dibattito in corso sulla manovra si parla di tutto tranne che di misure efficaci per rilanciare uno straccio di sviluppo e di occupazione? Assistiamo ad una confusa discussione su eventuali contributi di solidarietà da chiedere a chi più ha ma niente si vede all’orizzonte per eventuali e necessari utilizzi di queste risorse a fini di rilancio dell’occupazione, giovanile e complessiva.

La fantasia si può sbizzarrire: ad esempio una minitassa dell’1% sui grandi patrimoni, tirando in ballo solo quel 10% di famiglie che possiedono il 45% degli 8.400 miliardi di ricchezza privata darebbe più di 10 miliardi che potrebbero andare a defiscalizzare il costo lavoro dei giovani under 35, chiedendo un contributo minimo di 10mila euro a ogni famiglia benestante ma dando un contributo significativo all’occupazione, giovanile e non.

Quando ci si lamenta della difficoltà di imprese anche artigiane di reperire mano d’opera operaia qualificata, si dovrebbe meditare sulla svalutazione sistematica del lavoro operaio, in salari e diritti - come viene fatto anche con questa manovra - senza dimenticare che parliamo di dimensioni diverse tra disoccupati e carenza di offerta di lavoro: i primi sono milioni, i secondi non arrivano a 100mila. Bisognerebbe anche meditare sul doppio mercato del lavoro che ha richiamato 4 milioni di immigrati tra il 2000 ed il 2010. Il mercato del lavoro di bassa manualità è così mal trattato che ad esso rispondono solo gli immigrati, mentre la domanda di lavoro di media ed alta qualità è bassa perché il tasso di innovazione e tecnologico del sistema Italia è basso.

Scuola, cultura, ricerca ed innovazione non sono mai state nell’agenda prioritaria di questo governo, col risultato che sia le produzioni innovative che i posti lavoro qualificati sono carenti ed alimentano un doppio mercato del lavoro: nel biennio 2008-20010 l’occupazione si è ridotta di più di 500mila unità ma l’occupazione italiana si è ridotta di 800mila mentre quella straniera è aumentata di 300mila. È il comportamento classico di un mercato del lavoro stanco e asfittico, dove finisce per funzionare abbastanza bene solo il ricambio di lavori di bassa e media qualifica, quando i vecchi vanno in pensione.

L’Italia non cresce e invecchia male: da anni facciamo quasi la metà di figli dei francesi e nessuna politica pro lavoro, pro giovani e pro famiglia. Se non cogliamo l’occasione della manovra per cercare di ovviare al più grave problema economico e sociale, il basso livello di occupazione complessivo e la condanna al lavoro precario dei giovani, anche ricorrendo a tutte le risorse private che il Paese possiede, significa proprio che non abbiamo capito niente delle forze che muovono il mondo globalizzato: il sapere e l’innovazione che, dovunque nel mondo, sono portati avanti soprattutto dai giovani.


di Nicola Cacace

domenica 31 luglio 2011

L'APPELLO

Sono giorni che alcuni uomini e donne stanno protestando, facendo lo sciopero della fame, contro l'abbandono dello Stato e delle Istituzioni.
Questa è una lettera da firmare e inviare ai rappresentanti politici.
Una lettera al Presidente Napolitano, prima tappa per una campagna nazionale: dare risposte ai cittadini lucani e pugliesi e cambiare la legge nazionale per garantire i diritti di tutti i cittadini italiani….


Al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano

e, p.c,

Al Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi

Al Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti



Caro Sig. Presidente,

apprendo che due gruppi di cittadini lucani e pugliesi (a Serramarina di
Metaponto ed a Marina di Ginosa) stanno tenendo un duro sciopero della fame dal
22 Luglio per denunciare che a 5 mesi dall’esondazione di ben 5 fiumi lo Stato

li ha abbandonati; Maria, Patrizia, Domenico, Adele, Ernesto ed Agostino sono
parte di una comunità ferita e sono organizzati in un Comitato democratico di
cittadini ed associazioni che ne difendono le ragioni ed hanno a cuore la difesa
del territorio

Da cinque mesi stanno denunciando la gravità della loro situazione: non hanno
alcuna ipotesi di risarcimenti e nel loro territorio ferito dalle alluvioni non
vengono eseguiti nemmeno gli interventi minimi di messa in sicurezza lasciando i
fiumi con gli argini sfondati, le infrastrutture stravolte ed esponendo le
comunità a nuovi disastri per le prossime piogge.

Lamentano che l’alluvione del 1° Marzo scorso che ha colpito le loro terre è
accaduta qualche giorno dopo l’entrata in vigore del decreto mille proroghe che
dal 26 febbraio 2011 modifica la legislazione vigente in materia di disastri
naturali, dunque sono i primi cittadini italiani a sperimentarne gli effetti.

Secondo questa nuova norma le Regioni dovrebbero “pagarsi i costi dei disastri
naturali” e lo dovrebbero fare “alzando le tasse regionali”. Diverse Regioni
hanno rifiutato l’idea di aumentare le tasse ai propri cittadini per pagarsi i
danni dei disastri naturali e contro questa norma si sono manifestati molti
pronunciamenti e da più parti politiche. Sette regioni italiane, fra cui la
Puglia e la Basilicata, hanno sollevato difetto di costituzionalità e la corte
costituzionale, si esprimerà il 10 Gennaio 2012.

Si è aperto, così, un conflitto istituzionale e politico che sta tenendo
bloccata la possibilità di avere risposte; il Governo non emette l’ordinanza
dovuta e, dunque, non sono possibili misure straordinarie necessarie, non è
possibile spendere risorse degli Enti locali comprese le Regioni per i noti
vincoli del patto di stabilità e non è possibile impostare un serio piano che
affronti le emergenze ed imposti la fuoriuscita dalla crisi.

I cittadini colpiti non possono attendere fino al prossimo anno, né pagare i
prezzi del contenzioso politico ed istituzionale quando questo lede diritti
fondamentali.

La garanzia che, in caso di disastro naturale, siano soddisfatti i diritti ai
risarcimenti per quanti sono stati colpiti ed alla messa in sicurezza è uno
degli elementi fondanti della tenuta stessa della solidarietà nazionale.

Dal primo marzo 2011, invece, questi diritti sono nei fatti negati per effetto
della norma contenuta nel decreto milleproroghe che lascia i cittadini in una
situazione ormai insostenibile ed umiliante per la loro stessa dignità. In
diversi ancora vivono in albergo o ospitati da amici e famigliari, le aziende
agricole che hanno perso la produzione, le scorte o gli impianti non possono
fare fronte agli impegni finanziari ed alle scadenze, le aziende turistiche
stanno affrontando la stagione in condizioni fortemente compromesse, i
lavoratori perdono il lavoro.

Soprattutto, però, se non si fanno urgentemente lavori di messa in sicurezza del
territorio, con gli argini dei fiumi sfondati e le infrastrutture indebolite, le
prossime piogge d’autunno porteranno inevitabilmente ben altri disastri.

Le chiedo di intervenire per garantire che le risposte siano date.

Occorre il primo passo, che è sempre stato adottato precedentemente dopo la
dichiarazione di stato d’emergenza: che sia emessa l’ordinanza da parte del
Presidente del Consiglio dei Ministri di nomina del commissario e di
stanziamento delle prime risorse per avviare il processo di intervento con
almeno le iniziative più urgenti. Le Regioni Basilicata e Puglia nelle more che
la corte costituzionale si esprima, hanno dichiarato la disponibilità ad
intervenire con proprie risorse se pur in maniera parziale e nei limiti delle
loro disponibilità.

A troppi mesi dal Primo Marzo 2011 non c’è più alcun motivo perché non si trovi
una soluzione per i cittadini ed il territorio e perché si risponda alle
aspettative della comunità ferita.

Per tutto questo, Le chiedo di intervenire perché si compiano i passi dovuti per
garantire i diritti dei cittadini colpiti dagli eventi del Primo Marzo scorso
ma, anche, perché voglia valutare la possibilità di richiamare l’attenzione del
Parlamento sulla necessità di intervenire con una modifica delle norme assunte
con il decreto milleproroghe del 2011 che cambiano la modalità degli interventi
in caso di dichiarazioni di stato d’emergenza.

Lo sciopero della fame in corso segnala, infatti, una grande questione nazionale
che riguarda tutti i cittadini italiani: se questi sono gli effetti del cambio
della norma voluta dal milleproroghe, allora in Italia quando accadranno frane,
alluvioni, terremoti i cittadini rimarranno senza risposte.

Con osservanza e stima,

Antonella Melillo




http://www.terrejoniche.net/?p=554#more-554




http://tracieloemandarini.blogspot.com/search/label/Qui%20lo%20dico%20e%20qui%20non%20lo%20nego

martedì 28 giugno 2011

IL CORAGGIO DELLE DONNE:CONCITA DE GREGORIO

Nel segno della chiarezza



È trascorsa quasi una settimana dal giorno in cui insieme all’editore vi ho annunciato che avrei lasciato la guida dell’Unità e sento il bisogno di non far passare altro tempo per ringraziare tutti coloro che in questi giorni hanno scritto al nostro giornale e a me. Migliaia di persone alle quali non mi sarà possibile, se non in piccola parte, rispondere individualmente come vorrei: un’ondata di affetto che ci ha travolti fatta di messaggi, video, link su youtube, lettere di carta, persino telegrammi come si usava una volta, disegni di bambini, post su Facebook e poesie. Vecchie e nuove generazioni, ciascuna col suo linguaggio, ci hanno dato una testimonianza di calore e di stima per il lavoro di questi tre anni, per il cammino fatto insieme, che da sola giustifica le fatiche e l’impegno collettivo. Insieme alle lodi e all’affetto in molti hanno espresso qualche preoccupazione, domandato un supplemento di spiegazioni.

Come sapete non ho mai tenuto in conto, salvo che in rarissime e gravi eccezioni, gli attacchi scomposti della destra che sempre si qualifica da sola per quel che è con il suo carico di dossier fatti di voci anonime, lettere autoprodotte, falsi plateali spacciati per documenti, sussurri rancorosi assurti a verità e conditi nel caso specifico dell’opportuna dose di misoginia volgare. Anche questa volta non sono mancate le bordate ma d’altra parte lo sapete, viviamo ai tempi in cui Bisignani regna, non un appalto un incarico una quota di pubblicità si danno se non passano da quella regia e noi che ce ne siamo tenuti ben alla larga: anche per questo paghiamo pegno. Per non aver chinato la testa alle eminenze nere e ai signori degli affari. Il nostro giornale non porta quella macchia. Non è ai picchiatori e agli scherani del potere della destra che mi rivolgo dunque, naturalmente, ma a quanti fra i nostri lettori hanno espresso dubbi, chiesto rassicurazioni.

In primo luogo: questo giornale non conosce censure. Sotto la mia guida non ne ha subite da parte di alcuno, non ne ha esercitate. Capisco chi ci sia chi della persecuzione ha fatto la sua professione non avendo altro talento da spendere ma i fatti parlano: si può domandare a Marco Travaglio e a Claudio Fava, a Luigi De Magistris e a Sergio Staino, a don Filippo di Giacomo e a Lidia Ravera, a Francesca Fornario e Francesco Piccolo. Neppure i commenti sul web sono filtrati dalla moderazione: entrano tutti, in automatico. I nomi che ho citato esprimono sensibilità lontane tra loro, come vedete. Chi ha lavorato qui non ha mai subito pressione alcuna. Chi ha deciso di andare lo ha fatto per legittime aspirazioni professionali o economiche, in qualche caso perché ha avanzato richieste che non potevamo esaudire. Chi è arrivato, per contro, da Pippo Del Bono a Margherita Hack, da Michela Murgia ad Ascanio Celestini, da Nicola Piovani a Loretta Napoleoni lo ha fatto per passione, accettando quelle condizioni. Nessuna censura è stata mai esercitata su di noi, d’altro canto. Né da parte dell’editore né da parte del Partito Democratico.

Non sono mancate, lo abbiamo scritto con Renato Soru, critiche a questo o quel numero del giornale da parte di qualche dirigente, come ad ogni latitudine accade. Sono venute da tutte le componenti del partito il che è di per se una garanzia di equilibrio. D’altro canto moltissimi sono stati i riconoscimenti, personali e pubblici, degli esponenti di un partito che in questi tre anni ha cambiato tre volte segretario, ha affrontato le primarie e varie tornate elettorali con le tensioni che ne conseguono: hanno trovato costante spazio qui tutti coloro che hanno voluto esprimere il loro pensiero, dal preziosissimo Alfredo Reichlin che ci aiutato spesso a trovare la rotta ai più giovani dirigenti delle diverse anime del partito: Francesca Puglisi per la scuola e Stefano Fassina con Vincenzo Visco per l’economia, Livia Turco sui temi dell’immigrazione e Vittoria Franco su quelli delle donne, Ivan Scalfarotto e Paola Concia sulle diversità, Enrico Letta sulla politica e i diritti individuali, Sandra Zampa e Matteo Orfini, Sandro Gozi e Pietro Ichino, Pippo Civati e Susanna Cenni, moltissimi altri, tutti coloro che hanno voluto. Luigi Manconi ha portato il suo spirito libero. Goffredo Fofi la sua critica. Angelo Guglielmi i suoi libri. I più giovani, da Andrea Satta a Tobia Zevi ci hanno parlato del tempo in cui viviamo.

Nessuno può dunque credere che questo luogo libero e felice di incontro fosse ai suoi protagonisti sgradito a meno di non andare contro la logica e l’evidenza. Le tesi complottiste si spengono al cospetto dei fatti. I fatti sono che il nostro giornale ha attraversato due anni di stato di crisi, una ristrutturazione aziendale avvenuta all’unisono con quella di tutti gli altri grandi quotidiani, che ci ha costretti a lavorare in grande economia di mezzi e a chiedere alla redazione il sacrificio della cassa integrazione a rotazione per consentire ai più anziani di raggiungere il limite dell’età pensionabile, oltre il quale tutti quelli che lo desideravano sono stati mantenuti al lavoro con contratti di collaborazione. Nessuna delle energie storiche è andata dispersa. Al contempo però, e di questo ho parlato molte volte in pubblico e in privato con Susanna Camusso, la legge che regola le ristrutturazioni aziendali prevede che per prima cosa cessino i contratti flessibili, a tempo indeterminato.

L’Unità non ha mai licenziato nessuno, in questi tre anni: semplicemente, in base alla legge, non ha potuto rinnovare i contratti atipici che come ciascuno sa sono quelli con cui negli ultimi anni sono stati assunti tutti i più giovani. È una normativa che penalizza le generazioni in entrata e tende a creare conflitti generazionali. Nell’anno in cui abbiamo potuto farlo abbiamo firmato contratti a termine a ragazzi che hanno avuto qui una tribuna che li ha portati, in base alle loro capacità e ai loro talenti, ad ottenere in seguito interessanti e prestigiosi incarichi. Moltissimi di loro, anche molti tra i collaboratori, ce ne rendono in questi giorni atto. Alle parole e alle denunce di chi non conosco non posso rispondere.

È falso che abbiamo chiuso le cronache locali, al contrario ho messo le mie dimissioni sul tavolo nel momento difficile della discussione sulle edizioni di Firenze e Bologna, che sono state rilanciate sotto la regia di Pietro Spataro. Così come ho combattuto per le sostituzioni maternità che abbiamo coperto, sempre, tutte.

Ora che il ciclo si è chiuso, al 31 maggio la faticosissima stagione della Cig è finita, il giornale è pronto per un rilancio. A ciascuno la sua stagione. Io credo di aver portato il lavoro sin qui, con l’aiuto di Giovanni Maria Bellu di Luca Landò e della redazione intera, in condizioni di mare in tempesta. Credo anche che l’investimento fortemente voluto dall’editore sul web, che ha quintuplicato il suo traffico – 150 mila amici su Facebook, un luogo che si chiama ComUnità straordinario e vivacissimo, punte di due milioni di utenti unici – sia stato ancora una volta un esempio di quanto l’azienda e la redazione siano state capaci di trasformare le difficoltà in opportunità, guardando lontano.

Io credo che oggi - e le mobilitazioni degli ultimi mesi, i risultati delle amministrative e dei referendum ci danno ragione – sia davvero cambiato il tempo e sia quello il luogo dove ha senso proseguire una battaglia di rinnovamento del Paese. Anche quello. Credo che sia legittimo che io vi dica che le vecchie logiche spesso non offrono più le condizioni di libertà e di autonomia che le nuove generazioni a buon diritto pretendono. Che in questo momento di transizione verso il futuro, insieme alla conservazione di un patrimonio storico – quello che abbiamo traghettato sin qui, insieme al suo archivio centenario, portandolo nel presente – ci sia bisogno che chi ha forze e passione per farlo investa in nuove scommesse, come dico da tempo. Lavorare all’Unità è stato un privilegio, questi anni un investimento che ci ha portati dove voi eravate: proviamo per una volta a non demolire ciò che abbiamo costruito, ad avere rispetto del giornale e di noi stessi, a non farci distrarre dalle grida di chi – debole e ormai alla fine – vorrebbe trascinarci nella polvere con sé. La nostra forza è quella che gli altri non conoscono e non sanno decifrare: la disinteressata passione, la trasparenza di chi non è in vendita, il coraggio di rischiare.
24 giugno 2011