domenica 3 aprile 2011

Né maschile né femminile rivalutiamo il coraggio








di Nicla Vassallo.


Vacilliamo e individuiamo nel coraggio una prerogativa dittatoriale, conservatore, liberal, a seconda delle nostre appartenenze, di una mutevole lettura delle tesi politiche, di una certa cecità rispetto alla complessità del concetto, nonché alle somiglianze di famiglia (in senso wittgensteniano) tra i tanti atti di coraggio.



Facile da cogliere questa complessità, specie per chi, come la sottoscritta, pur non amando Arthur Schopenhauer, conviene con lui che il coraggio filosofico consista nel sollevare domande: le azioni coraggiose vengono aizzate o paralizzate da valutazioni razionali?; emotività, inconsapevolezza, spontaneità conducono a scardinare le proprie debolezze e difficoltà?; occorre conoscenza dei pericoli che si corrono e dei successi cui si ambisce?; mostrare coraggio sul piano civile, su quello fisico, su quello psichico implica confrontarsi con più tipologie di contrarietà?; il coraggio rappresenta la spiegazione di un gesto, oppure è col gesto che si spiega il coraggio?; l’eterogeneità dei coraggi ammette amour propre, autoaffermazioni, convenienze, stupidità, vanità, ambizioni di celebrazioni, glorie, visibilità?; attribuiamo coraggio a causa dell’empatia, dell’invidia, della soggezione nei confronti del soggetto prode, e lo attribuiamo in egual misura ad azioni, costumi, pensieri?; quali avversità private, oltre che pubbliche, inducono ad azioni coraggiose?; perché il coraggio è tradizionalmente maschile, mentre la pazienza è femminile?; la leggenda vige fino al punto da trasformare il coraggio in un vizio macho e la remissività in uno da femminucce?; la pazienza non si esplica forse in una forma di coraggio, e il coraggio non si rivela al contempo nell’impeto e nell’onestà?



Queste domande generano imbarazzo intellettuale e politico: esitiamo a offrire loro una risposta cogente e definitiva, che non oscilli tra diversi poli, a seconda del preciso contesto in cui ci troviamo e dello specifico gesto che osserviamo.



Nel coraggio non si scorge solo abnegazione, come nell’abnegazione non si scorge solo coraggio, mentre non sempre l’ingiunzione di San Paolo, contra spem in spem crediti, conduce verso l’uno, o verso l’altra, sempre che sia lecito credere in qualcosa privo di speranza.



L’esempio dell’«Eran trecento, eran giovan e forti e sono morti» rimanda a un coraggio per un verso conservatore, per un altro liberal, per un altro ancora anarchico - dipende dalle interpretazioni del Risorgimento, della spedizione di Carlo Pisacane, dei rapporti tra nord e sud, delle afflizioni di chi conquista e di chi è conquistato, di chi libera e di chi è liberato, dei valori. Valori che non sono scomparsi dalla nostra attuale società, come non sono scomparse le avversità cui reagire, sebbene l’immaginario collettivo consideri il coraggio virtù vetusta, addirittura sovversiva: la sfera privata e pubblica ci pongono alla prova ogni giorno, costringendoci a cercare la verità, a conoscere, a riflettere su correttezze e scorrettezze, a impiegare la ragione, a costo di subire ostracismi.
Se è giusto affermare che con coraggio si supera la paura, ogni epoca, la nostra inclusa, è attraversata dalla paura di avere coraggio, un coraggio che non si pone l’obiettivo di venir premiato dalle telecamere, un coraggio che nasce da umanità e umiltà, che si concretizza in impegni civici, sociali, e il cui indennizzo rimane nella propria coscienza, intelligenza, sensibilità.
In una famosa definizione di Ernest Hemingway, il coraggio è «grace under pressure».

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